FASEMO FILO’
L’uomo che piantava gli alberi
Un racconto di Jean Giono
Presentazione
UN MESSAGGIO D’AMORE PER L’ALBERO
Scoprii la storia semplice e toccante dell’uomo che piantava gli alberi per puro caso, molti anni fa. A quell’epoca, Jean Giono era uno scrittore poco noto in Italia e i messaggi d’amore per la natura, nella letteratura che andava per la maggiore, non erano troppo frequenti. Questa vicenda d’un pastore che, con molta fatica e nessun tornaconto personale, si dedicava tenacemente a piantar querce in una landa desolata avrebbe potuto apparire allora, tuttalpiù, come un’innocua stravaganza. Meritevole di suscitare, al massimo, un sorrisetto di compiacimento.
Dietro a questa insolita storia positiva, persino ingenua, si cela invece un messaggio profondo. Capace di propagarsi nell’animo e nella cultura umana come le radici, i rami, le foglie e i frutti dell’albero sul terreno circostante. È un messaggio di riconciliazione dell’uomo con madre natura, è un messaggio di rinascita della foresta e della vita là dove erano state incoscientemente annientate. Perché l’albero rappresenta, fin dai tempi più antichi, il simbolo e l’espressione della vita, dell’equilibrio e della saggezza. L’albero del paradiso terrestre era la fonte della conoscenza del bene e del male; spesso nell’antichità, colossali patriarchi arborei millenari furono venerati come sacri; e i tronchi diritti e giganteschi della foresta formarono le colonne dei primi templi, in cui l’uomo esprimeva la sua stupefatta religiosità di fronte alla grandezza della natura e del cosmo.
Ogni albero è la dimora segreta di mille creature appariscenti o sconosciute, sorprendenti o sfuggenti, in quella rete fittissima di rapporti che forma le fondamenta e la vitalità stessa dell’equilibrio ecologico. Ogni albero sprigiona colori inarrivabili, suoni indecifrabili e profumi sconosciuti in ogni ora del giorno e della notte e nelle varie stagioni. Ed anche dopo la morte, i rami caduti, i tronchi in disfacimento e i ceppi marcescenti offrono asilo e nutrimento alla più varia, ricca e preziosa comunità vivente. La natura rinasce senza fine, rinnovandosi continuamente; sempre diversa, eppure sempre uguale a se stessa.
Ogni albero racchiude una storia, un mistero, una memoria del passato. E offre ispirazione e creatività a quanti sappiano guardarlo con occhio giovane, libero e aperto. E il prodigio dell’albero si riflette nella stessa mente e nel cuore dell’uomo. «Ogni giorno quell’albero mi dà pensieri di gioia* cantava un antico poeta cinese. Mentre uno dei santi Padri della chiesa ammoniva: «Troverai più nei boschi che nei libri». Due messaggi forse lontani dalla nostra frenetica vita di tutti i giorni, ma su cui varrebbe la pena di riflettere un attimo. L’albero ha dato moltissimo all’umanità, nel corso della sua lunga storia: forse è giunto il tempo di contraccambiarlo con affetto e generosità. Come fece nella sua pacifica vita l’indimenticabile Elzéard Bouffier, l’uomo che piantava gli alberi.
«Qualsiasi stupido è capace di distruggere gli alberi» scriveva nel secolo scorso John Muir, pioniere americano della conservazione della natura. Ancora troppo pochi hanno invece il cuore, l’intelligenza e la dedizione necessarie per salvarli, custodirli e piantarli. Ma è ancora possibile un ritorno alla cultura, all’amore, alla fede dell’albero e della foresta: con la forza, la verità e l’ispirazione che solo la natura può dare.
Franco Tassi
(già Direttore e Sovrintendente dell’Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo e Centro Parchi)
L’UOMO CHE PIANTAVA GLI ALBERI
Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile.
[inizio racconto]
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Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza.
Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drôme, dalla sorgente sino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drôme e una piccola enclave della Valchiusa.
Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica.
Attraversavo la regione per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi trovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne. Quell’agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C’era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case, senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa.
Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d’una belva molestata durante il pasto.
Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi, non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore.
Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui. Mi fece bere dalla sua borraccia e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su l’acqua, ottima, da un foro naturale, molto profondo, al di sopra del quale aveva installato un rudimentale verricello. L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza. Era una presenza insolita in quella regione spogliata di tutto. Non abitava in una capanna ma in una vera casa di pietra, ed era evidente come il suo lavoro personale avesse rappezzato la rovina che aveva trovato al suo arrivo. Il tetto era solido e stagno. Il vento che lo batteva faceva sulle tegole il rumore del mare sulla spiaggia.
La casa era in ordine, i piatti lavati, il pavimento di legno spazzato, il fucile ingrassato; la minestra bolliva sul fuoco. Notai anche che l’uomo era rasato di fresco, che tutti i suoi bottoni erano solidamente cuciti, che i suoi vestiti erano rammendati con la cura minuziosa che rende i rammendi invisibili.
Divise con me la minestra e, quando gli offrii la borsa del tabacco, mi rispose che non fumava.
Il suo cane, silenzioso come lui, era affettuoso senza bassezza.
Era rimasto subito inteso che avrei passato la notte da lui; il villaggio più vicino era a più di un giorno e mezzo di cammino. E, oltretutto, conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di quella regione. Ce ne sono quattro o cinque sparsi lontani gli uni dagli altri sulle pendici di quelle cime, nei boschi di querce al fondo estremo delle strade carrozzabili.
Sono abitati da boscaioli che producono carbone di legno. Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l’una contro l’altra in quel clima di una rudezza eccessiva, d’estate come d’inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. L’ambizione irragionevole si sviluppa senza misura, nel desiderio di sfuggire a quei luoghi.
Gli uomini portano il carbone in città con i camion, poi tornano. Le più solide qualità scricchiolano sotto quella perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C’è concorrenza su tutto, per la vendita del carbone come per il banco di chiesa, per le virtù che lottano tra di loro, per i vizi che lottano tra di loro e per il miscuglio generale dei vizi e delle virtil, senza posa. Per sovrappiù, il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina. Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo. Mi rispose che era affar suo. In effetti: vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire. La società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi per l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate.
Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra. di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie era in un avvallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo di meglio.
Andava a duecento metri da lì, più a monte.
Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura. Dopo il pranzo di mezzogiorno, ricominciò a scegliere le ghiande. Misi, credo, sufficiente insistenza nelle mie domande, perché mi rispose.
Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla.
Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni. Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzéard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita.
Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza d’alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose.
Poiché conducevo anch’io in quel momento, malgrado la giovane età, una vita solitaria, sapevo toccare con delicatezza l’anima dei solitari. Tuttavia, commisi un errore. La mia giovane età, appunto, mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di una qual certa ricerca di felicità. Dissi che, nel giro di trent’anni, quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare. Stava già studiando, d’altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle faggine. I soggetti, che aveva protetto dalle pecore con una barriera di rete metallica, erano di grande bellezza. Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo.
Ci separammo il giorno dopo. L’anno seguente, ci fu la guerra del ‘ 14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata.
Finita la guerra, mi trovai con un’indennità di congedo minuscola ma con il grande desiderio di respirare un poco d’aria pura. Senza idee preconcette, quindi, tranne quella, ripresi la strada di quelle contrade deserte.
Il paese non era cambiato. Tuttavia, oltre il villaggio abbandonato, scorsi in lontananza una specie di nebbia grigia che ricopriva le cime come un tappeto. Dalla vigilia, m’ero rimesso a pensare a quel pastore che piantava gli alberi.
Diecimila querce mi dicevo, occupano davvero un grande spazio. Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzéard Bouffier, tanto più che, quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire. Non era morto. Era anzi in ottima forma.
Aveva cambiato mestiere. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s’era per nulla curato della guerra. Aveva continuato imperturbabilmente a piantare. Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.
Aveva seguito la sua idea, e i faggi che mi arrivavano alle spalle, sparsi a perdita d’occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passato l’età in cui potevano essere alla mercé dei roditori; quanto ai disegni della Provvidenza stessa per distruggere l’opera creata, avrebbe dovuto ormai ricorrere ai cicloni. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni prima, cioè al 1915, l’epoca in cui io combattevo a Verdun. Le aveva piantate in tutti i terreni dove sospettava, a ragione, che ci fosse umidità quasi a fior di terra. Erano tenere come delle adolescenti e molto decise. Il processo aveva l’aria, d’altra parte, di funzionare a catena. Lui non se ne curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice. Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell’acqua in ruscelli che, a memoria d’uomo, erano sempre stati secchi. Era la più straordinaria forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. Quei ruscelli avevano già portato dell’acqua, in tempi molto antichi. Alcuni dei tristi villaggi di cui ho parlato all’inizio del mio racconto sorgevano su siti di antichi villaggi gallo-romani di cui restavano ancora vestigia, nelle quali gli archeologi avevano scavato, trovando ami in posti dove nel ventesimo secolo si doveva far ricorso alle cisterne per avere un po’ d’acqua. Anche il vento disperdeva certi semi. Con l’acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini, i fiori e una certa ragione di vivere. Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell’abitudine senza provocare stupore. I cacciatori che salivano in quelle solitudini seguendo le lepri o i cinghiali s’erano accorti del rigoglio di alberelli, ma l’avevano messo in conto alle malizie naturali della terra. Perciò nessuno disturbava l’opera di quell’uomo. Se l’avessero sospettato, l’avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica generosità? A partire dal 1920, non ho mai lasciato passare più d’un anno senza andare a trovare Elzéard Bouffier. Non l’ho mai visto cedere né dubitare. Eppure, Dio solo sa di averlo messo alla prova! Non ho fatto il conto delle sue delusioni. È facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita, sia stato necessario vincere le avversità; che, per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario lottare contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti. L’anno dopo, abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce. Per farsi un’idea più precisa di quell’eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in una solitudine totale; al punto che, verso la fine della vita, aveva perso del tutto l’abitudine a parlare. 0, forse, non ne vedeva la necessità. Nel 1933, ricevette la visita di una guardia forestale sbalordita. Il funzionario gli intimò l’ordine di non accendere fuochi all’aperto, per non mettere in pericolo la crescita di quella foresta naturale. Era la prima volta, gli spiegò quell’uomo ingenuo, che si vedeva una foresta spuntare da sola. A quell’epoca, Bouffier andava a piantare faggi a dodici chilometri da casa. Per evitare il viaggio di andata e ritorno, poiché aveva ormai settantacinque anni, stava considerando la possibilità di costruirsi una casupola di pietra sul luogo stesso dove piantava. Ciò che fece l’anno seguente. Nel 1935, una vera e propria delegazione governativa venne a esaminare la foresta naturale. C’erano un pezzo grosso delle Acque e Foreste, un deputato, dei tecnici. Fu deciso di fare qualcosa e, fortunatamente, non si fece nulla, tranne l’unica cosa utile: mettere la foresta sotto la tutela dello Stato e proibire che si venisse a fame carbone. Perché era impossibile non restare soggiogati dalla bellezza di quei giovani alberi in piena salute. Esercitò il proprio potere di seduzione persino sul deputato. Un capitano forestale mio amico faceva parte della delegazione. Gli spiegai il mistero. Un giorno della settimana seguente, andammo insieme a cercare Elzéard Bouffier. Lo trovammo in pieno lavoro, a venti chilometri da dove aveva avuto luogo l’ispezione. Quel capitano forestale non era mio amico per nulla. Conosceva il valore delle cose. Seppe restare in silenzio. Offrii le uova che avevo portato in regalo. Dividemmo il nostro spuntino in tre e restammo qualche ora nella muta contemplazione del paesaggio. La costa che avevamo percorso era coperta d’alberi che andavano da sei a otto metri di altezza. Mi ricordavo l’aspetto di quelle terre nel 1913, il deserto …
Il lavoro calmo e regolare, l’aria viva d’altura, la frugalità e soprattutto la serenità dell’anima avevano conferito a quel vecchio una salute quasi solenne. Era un atleta di Dio. Mi domandavo quanti altri ettari avrebbe coperto d’alberi. Prima di partire, il mio amico azzardò soltanto qualche suggerimento a proposito di certe essenze alle quali il terreno sembrava adattarsi. Non insistette. «Per la semplice ragione» mi spiegò poi, «che quel signore ne sa più di me». Dopo un’ora di cammino, dopo che l’idea aveva progredito in lui, aggiunse: «Ne sa di più di tutti. Ha trovato un bel modo di essere felice!» È grazie a quel capitano che, non solo la foresta, ma anche la felicità di quell’uomo furono protette. Fece nominare tre guardie forestali per quella protezione e le terrorizzò a tal punto che rimasero sempre insensibili alle mazzette offerte dai boscaioli. L’opera corse un grave rischio solo durante la guerra del 1939. Poiché le automobili andavano allora col gasogeno, non c’era mai abbastanza legna. Cominciarono a tagliare le querce del 1910, ma l’area era talmente lontana da tutte le reti stradali che l’impresa si rivelò fallimentare dal punto di vista finanziario. Fu abbandonata. Il pastore non aveva visto nulla. Era a trenta chilometri di distanza, e continuava pacificamente il proprio lavoro, ignorando la guerra del ’39 come aveva ignorato quella del ‘ 14. Ho visto Elzéard Bouffier per l’ultima volta nel giugno del 1945. Aveva ottantasette anni. Avevo ripreso la strada del deserto, ma adesso, nonostante la rovina in cui la guerra aveva lasciato il paese, c’era una corriera che faceva servizio tra la valle della Durance e la montagna. Misi sul conto di quel mezzo di trasporto relativamente rapido il fatto che non riconoscessi più i luoghi delle mie prime passeggiate. Mi parve anche che l’itinerario mi facesse passare in posti nuovi. Ebbi bisogno del nome di un villaggio per concludere che invece mi trovavo proprio in quella zona un tempo in rovina e desolata. La corriera mi depositò a Vergons. Nel 1913, quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate. La loro condizione era senza speranza. Non avevano altro da fare che attendere la morte: situazione che non dispone alla virtù. Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. Un rumore simile a quello dell’acqua veniva dalla cima delle montagne: era il vento nella foresta. Infine, cosa più sorprendente, udii il vero rumore dell’acqua scrosciante in una vasca. Vidi che avevano costruito una fontana; l’acqua vi era abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino a essa avevano piantato un tiglio di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione. In generale, Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. Avevano sgomberato le rovine, abbattuto i muri crollati e ricostruito cinque case. La frazione contava ormai ventotto abitanti, tra cui quattro giovani famiglie. Le case nuove, intonacate di fresco, erano circondate da orti in cui crescevano, mescolati ma allineati, verdure e fiori, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedani e anemoni. Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare. Da lì, proseguii a piedi. La guerra da cui eravamo appena usciti non aveva consentito il rifiorire completo della vita, ma Lazzaro era ormai uscito dalla tomba. Sulle pendici più basse della montagna, vedevo i campicelli di orzo e segale in erba; in fondo alle strette vallate, qualche prateria verdeggiava. Sono bastati gli otto anni che ci separano da quell’epoca perché tutta la zona risplenda di salute e felicità. Dove nel 1913 avevo visto solo rovine, sorgono ora fattorie pulite, ben intonacate, che denotano una vita lieta e comoda. Le vecchie fonti, alimentate dalle piogge e le nevi che la foresta ritiene, hanno ripreso a scorrere. Le acque sono state canalizzate. A lato di ogni fattoria, in mezzo a boschetti di aceri, le vasche delle fontane lasciano debordare l’acqua su tappeti di menta. I villaggi si sono ricostruiti poco a poco. Una popolazione venuta dalle pianure, dove la terra costa cara, si è stabilita qui, portando gioventù, movimento, spirito d’avventura. S’incontrano per le strade uomini e donne ben nutriti, ragazzi e ragazze che sanno ridere e hanno ripreso il gusto per le feste campestri. Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier. Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole. Ma, se metto in conto quanto c’è voluto di costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo ortare a buon fine un’opera degna di Dio. Elzéard Bouffier è morto serenamente nel 1947, all’ospizio di Banon.
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[Nota sull’autore di Leopoldo Carra]
Schivo, generoso, radicato come una pianta tenace alla terra della sua Provenza (di cui amava le luci e i profumi, i paesaggi e i sapori speziati), ma romanticamente assorto nel documentare e sognare le sue origini italiane, più esattamente piemontesi, Jean Giono ci appare innanzitutto come un inclassificabile, come una di quelle figure cui la storia letteraria stenta a trovare la casella giusta, la formula che possa semplificare una complessità e una ricchezza straordinarie.
Refrattario ai giochi della società letteraria parigina, si recò per la prima volta nella capitale a trentaquattro anni, per firmare le copie destinate al servizio stampa di Collina, il romanzo che gli diede la notorietà. Nell’assumere posizioni e nel sostenere idee, poi, Giono non mancò mai di considerare i problemi secondo un’angolazione originale, e questo gli valse, come vedremo, le condanne più contraddittorie, pronunciate magari da schieramenti opposti. Succede sempre così, pare, agli spiriti veramente indipendenti. Il nostro autore nacque a Manosque, nel 1895, da una stiratrice e da un calzolaio. Il nonno, Pietro Antonio Giono, poi Jean-Baptiste, è la figura dai contorni leggendari cui lo scrittore si sarebbe ispirato, negli anni della maturità artistica, per i romanzi componenti il ‘ciclo dell’ussaro’. Partendo da un fondo di verità, Giono voleva il suo progenitore «piemontese, carbonaro e ufficiale», costretto a lasciare l’Italia per la Francia in quanto «condannato a,morte in contumacia per aver cospirato contro le vigliaccherie della sua epoca».
A sedici anni, causa la malattia del padre, Jean dovette interrompere gli studi ed impiegarsi in banca, sempre a Manosque. Ma grazie a una serie di solide letture (la Bibbia, Omero, Kipling), incoraggiate dalla pur modesta famiglia, aveva fatto in tempo a formarsi una cultura e una sensibilità letteraria. Partecipò al primo conflitto mondiale («soldato di seconda classe senza croce di guerra») e fu ferito a Verdun. Nel 1924 pubblicò una raccolta di versi, “Accompagnés de la flute” [Accompagnati dal flauto], e lavorò nel 1927 alla stesura del suo primo libro in prosa, “La menzogna di Ulisse”, che sarebbe uscito nel 1930 e che conteneva una trasposizione dell’ “Odissea” nel presente. Lo stesso lirismo mediterraneo e
pagano si ritrova nella cosiddetta ‘trilogia di Pan’, costituita dai romanzi “Collina” (1929), “Uno di Baumugnes” (1929) e “Regain” (1930). In questo trittico epico-narrativo, lo scrittore celebra il legame cosmico e viscerale dei contadini provenzali con la Natura; una Natura che, nei suoi aspetti più ostili come in quelli familiari e idilliaci, è comunque una forza misteriosa, i cui segni non possono essere interpretati da tutti. Le influenze di Virgilio, Whitman, Melville e Ramuz sono assimilate e superate in uno stile autentico, nuovo, lontano dalle astrazioni della letteratura colta; un linguaggio in cui la prosa poetica si fonde sapientemente con il parlato popolare.
Grazie al successo di “Collina”, Giono poté dedicarsi interamente alla letteratura. Nel 1931 uscì “Le Grand troupeau” [Il grande gregge], in cui il reduce di Verdun evocava l’orrore della guerra di trincea. Con “Il canto del mondo” (1934) e “Que ma joie demeure”, 1935 [Che la mia gioia resti], il tema del ritorno alla natura assumeva il tono della predicazione. A proposito del primo, una storia di avventure simbolicamente ambientata lungo il corso di un fiume, l’autore dichiarò di aver voluto scrivere «un libro con montagne inviolate, con terra, foresta, neve e uomini inviolati. Ci sono tutte queste cose. Sono individui sani, onesti, forti, duri, puri, fedeli. Vivono la loro avventura. Solo loro conoscono le gioie e la tristezza del mondo»: In “Que ma joie demeure”, il richiamo alla natura come fonte della vita apriva ad un altro tema, la ricerca della felicità, che sarebbe sempre stato caro a Giono. L’autore, così, oltre a dedicarsi regolarmente alla pratica quotidiana della scrittura, oltre a concedersi passeggiate per la campagna e lunghe conversazioni con i contadini (da un simile spunto narrativo, del resto, prende avvio anche la storia dell’ “Uomo che piantava gli alberi”), iniziava a vedere intorno a sé dei discepoli, che si riunivano in una fattoria abbandonata a Contadour, in alta Provenza, per ascoltare il suo messaggio pacifista e per imparare da lui “Les vraies richesses”, 1936 [Le vere ricchezze]: quelle che nascono dalla terra e dal suo lavoro. La sottomissione all’ordine naturale del mondo costituisce per l’individuo la libertà, incompatibile con la civiltà moderna e con l’intruppamento che questa presuppone.
Un simile impegno, che trovò espressione letteraria in una serie di saggi (“Présentation de Pan”, 1930 [Presentazione di Pan]; “Refus d’obéissance”, 1937 [Rifiuto dell’ubbedienza]; “Lettre aux paysans sur la pauvreté et sur la paix”, 1938 [Lettera ai contadini sulla povertà e sulla pace]), avrebbe portato Giono a conoscere il carcere, nel 1939 (anno di mobilitazione generale), con l’accusa di propaganda antimilitarista. Né la Liberazione riservò all’autore sorti migliori: i comunisti francesi non lo vedevano di buon occhio, per avere aderito a un comitato di scrittori guidato dal surrealista Breton e di ispirazione trotzkista. Inoltre, il suo ideale del ritorno alla terra e della rinascita provinciale poteva apparire, secondo un giudizio distorto, come un implicito assenso alla dottrina ufficiale del regime di Vichy. La Resistenza, infine, gli rimproverava collaborazioni a riviste compromesse con i tedeschi. Così Giono, che durante l’occupazione aveva dato rifugio a due cugini comunisti, ad alcuni ebrei e a un disertore ricercato dalla Gestapo, fu accusato di collaborazionismo e subì, a partire dal settembre ’44, una nuova prigionia e il divieto di pubblicare.
Nella forzata solitudine lo scrittore si dedicò alla lettura di Ariosto e di Stendhal. Questo alimento spirituale gli fornì la forza per progettare un grande ciclo di ‘cronache’, in cui finalmente potesse incarnarsi come personaggio la leggendaria figura del nonno: ecco che nasceva Angelo Pardi, il giovane colonnello degli ussari animato dalla passione risorgimentale, generoso e audace, orgoglioso ma non scevro di colorazioni ironiche. Accanto a lui, l’autore poneva l’incantevole Pauline de Théus, e dava vita a una serie di romanzi le cui trame sono legate fra loro, anche se l’ordine cronologico di stesura e pubblicazione risulta sfalsato rispetto all’intreccio stesso: “Mort d’un personnage”, 1949 [Morte di un personaggio], il celeberrimo “Ussaro sul tetto” (1951), “La pazza gioia” (1957) “Angelo” (1958). Dal racconto picaresco (si pensi, nell’ “Ussaro”, alle lunghe, abbacinanti pagine in cui Angelo attraversa una Provenza devastata dal colera) alla storia d’amore, dall’avventura di cappa e spada al romanzo storico (nella Paua gioia Angelo partecipa ai moti italiani del ’48): vari generi narrativi sono accolti nel fiume di questo stile nuovo, di questo linguaggio ormai spoglio del lirismo che distingueva le prime opere, e capace, pur nel fluire torrenziale del racconto, di esibire il sottinteso, l’espressione secca e straniante.
Giono scrisse ancora molto, prima di spegnersi nel 1970 a Manosque, nella casa in cui era sempre vissuto con la moglie Elise e le due figlie. Merita però di essere ricordato il “Viaggio in Italia” (1953), in cui il tema (quanto stendhaliano!)
della ricerca della felicità si esprime nell’arte di godere ogni attimo, ogni luce o profumo o silenzio dell’aria, ogni chiesa romanica e ogni stradina di campagna: «Non bisogna disdegnare nulla. La felicità è una ricerca. Occorre impegnarvi l’esperienza e la propria immaginazione».
È qui, in queste parole, il senso più profondo di un percorso intrapreso per visitare la terra d’origine dei suoi antenati e di Machiavelli, a cui il nostro autore dedicò alcuni saggi.
Giono, dunque, morì a settantacinque anni, senza che mai la società letteraria francese gli avesse perdonato la sua originalità e il caparbio attaccamento alla sua terra (con due sole eccezioni: l’ammissione all’Accademia Goncourt, nel 1954, e soprattutto la stima di André Gide).
Fra i tanti modi di ricordarlo adesso, forse, il migliore è scoprire questa storia dell’ “Uomo che piantava gli alberi”. Vi si ritrovano, nello spazio di un breve racconto, tutti i temi che furono cari allo scrittore: il pacifismo, nel paragone implicito fra le giovani vite mietute a Verdun e i giovani alberi seminati dal pastore Elzéard Bouffier; l’attaccamento alla vita e il ritorno alla natura; la ricerca della felicità, anche collettiva e comunitaria (lo si vede nella rinascita morale, oltre che ambientale e topografica, del villaggio di Vergons); l’apprezzamento per un lavoro onesto, silenzioso e solitario, per una fatica generosa e libera, per uno sforzo tenace che lascia traccia, e che l’inquadramento in qualsiasi ufficialità rischierebbe di vanificare. I risultati di questo lavoro fanno pensare che, malgrado tutto, la condizione umana sia amrnirabile, poiché da essa può nascere un’opera degna di Dio. Ma ritroviamo, in queste pagine, anche l’immagine dello scrittore che amava passeggiare in solitudine per le colline, fermandosi a parlare con la gente del posto; lo scrittore che da bambino camminava insieme al padre con le tasche piene di ghiande e un bastone per poterle piantare.. .
Vogliamo spingerci fino a dire che, in questo piccolo libro, Giono ha prestato qualche tratto di sé anche a Elzéard Bouffier, il pastore che passa la sua vita seminando querce, faggi e betulle, senz’altra ricompensa che il piacere e la soddisfazione di averlo fatto?
“QUANDO PENSO CHE UN UOMO SOLO, RIDOTTO ALLE PROPRIE SEMPLICI RISORSE FISICHE E MORALI, E’ BASTATO A FAR USCIRE DAL DESERTO QUEL PAESE DI CANAAN, TROVO CHE, MALGRADO TUTTO, LA CONDIZIONE UMANA SIA AMMIREREVOLE”.
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La versione illustrata si trova all’url http://www.giuliotortello.it/uomo/uomo.pdf
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Nonostante il mio ardente amore per Venezia la laguna veneziana sarebbe per me rimasta una curiosità, estranea, bizzarra, incompresa, se una volta, stanco di fissarla come un idiota, non avessi diviso per otto giorni e otto notti la barca e il pane e il letto di un pescatore di Torcello. Ho remato lungo le isole; ho camminato coi piedi nell’acqua per le brune barre di foce, col retino in mano; ho imparato a conoscere l’acqua, flora e fauna della laguna; ho respirato e osservato la sua aria particolarissima; e da allora mi è familiare ed amica. Quegli otto giorni, avrei forse potuto dedicarli a Tiziano e Veronese, ma in quel peschereccio dalla vela triangolare d’un bruno dorato ho imparato a capire Tiziano e Veronese meglio che all’Accademia o nel Palazzo dei Dogi. E non soltanto qualche quadro, ma tutta Venezia non è più per me un enigma bello quanto opprimente: anzi, è una realtà molto più bella, che mi appartiene, verso la quale ho il diritto che deriva dalla comprensione.