La polenta dei Mille (garibaldini)

FASEMO FILO’

La polenta dei Mille (garibaldini)

di Ettore Aulisio e Pino Sartori

La polenta è quella cosa
Che si intinge nei sughetti
Bianca o gialla essa si sposa
Con salumi e con funghetti
Con le uova e coi formaggi
Saporiti oppur piccanti
Con le salse sostanziose
Con le zuppe più fragranti.
Sempre a tutti è gradita
Morbidetta o bella soda
Tenerella o arrostita.
E col latte pur si goda
Freddo questo e lei bollente
O lei fredda e il latte caldo
D’invertir si consente.
E’ contorno, è primo piatto
E persino, al tempo adatto,
puoi servirla sul tuo desco
come dolce sostanzioso
popolare e pittoresco.
Per un motto antico è
Pur gran piatto per i re.

(Giuseppe Maffioli – 15 libri di cucina)

Siamo in tempo di ‘crisi’ e quindi è il caso di ritirare fuori un proletario cibo che per secoli ha saziato la povera gente ed ha accompagnato i desinari di quella ricca: la polenta.
Tante cose di essa si son dette, in poesia e in prosa, di belle e di brutte: c’è chi l’ha elogiata per la sua duttilità ad accompagnarsi ad altri cibi, o per il suo colore o per il suo calore; altri invece imprecando ne hanno parlato male, forse perché solo quella avevano da mangiare, ed anche senza condimento: nuda e cotta. E non parliamo poi di quante brutte cose si son dette del mais accusato di essere causa della “pellagra” che per anni afflisse (infestò) le contrade contadine: la polenta aveva il compito di riempire la pancia, ma non quello di fornire la vitamina PP!
In Italia, circa l’impiego e l’uso della farina di mais, c’è poi anche un risvolto che non sappiamo se definire politico o geografico o sociale: “Polentoni” erano definiti gli abitanti delle regioni settentrionali perché la polenta era il loro principale piatto, mentre “Terroni” erano definiti quelli delle regioni meridionali perché sapevano solo coltivare la terra ed erano considerati degli arretrati civilmente.

Polenta gialla!

Polenta gialla!

E gli abitanti dell’Italia centrale? Per non dar torto a nessuno eran detti Terroni dai settentrionali e Polentoni dai meridionali.
Ora, anche perché abbiamo da poco passato  il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, cerchiamo di riportare di seguito delle ricette regionali italiane ricostruendo con un po’ di immaginazione alcune storiche vicende del 1860, sperando che a tutti sia chiaro che la polenta era una piatto nazionale e che in tal senso va ancora oggi onorata (con moderazione).

La Polenta dei Mille a Genova
Si trovarono alla fine di aprile a Genova, arrivavano in piccoli gruppi: erano più di mille i volontari in attesa di imbarcarsi. In gran parte venivano dalla Lombardia, soprattutto da Bergamo; parecchi arrivano dal Veneto, altri ancora dal Piemonte e anche da Toscana e Emilia, le due Regioni in attesa di essere annesse al Regno sabaudo.

(Qui si possono consultare gli elenchi  dei Mille garibaldini)

Di seguito  (Fig. 1) invece la provenienza  dai comuni dei garibaldini provenienti dal Veneto, e qui potete scaricare l’elenco ufficiale dei veneti [Veneti_dei _mille] che parteciparono alla spedizione.

ComunidelVeneto_x_1000

Fig. 1

Tutti quei giovani volevano fare l’Italia, una e grande e indipendente, magari anche repubblicana…. e fra di loro accese erano le discussioni. Ma oltre allo spirito patriottico avevano fame; allora, mentre il Generale se ne stava a pensare e a tramare in una bella villa di un esule piceno, gli ardimentosi pensarono a cosa mangiare pur spendendo poco; molti di loro avevano pochi soldi in tasca.
La ligure farinata di ceci?
No dissero alcuni: che cosa c’è di meglio della polenta, comunque condita, ma calda e fumante per togliere dalle ossa l’umidità notturna?

Veneti_1000_garibaldini_x_provLa prima sera Francesco, detto Cesco, uno dei 28 garibaldini padovani, (cfr. Tab. n.2)  lentigginoso e rosso di pelo, subito propose, nel suo dialetto un po’ gutturale, una ricetta materna, quella che gli era venuta subito alla mente, e allo stomaco; eccola qua: “polenta e osei

Polenta e osei
«Per prima cosa la mamma spenna gli osei (che siano però defunti conclamati, mi raccomando), li bruciacchia, gli libera il retto come dicono i toscani (cioè il culo, “el de drio”, per chi non capisce) da eventuali residui con uno stuzzicadenti, spuntato per non far danni. Poi procede con il tagliare le zampe e il becco, il togliere gli occhi (è un po’ delicatina e fa eseguire tale operazione a qualcun altro della famiglia). Ciò fatto passa alla casseruola, nella stessa riscalda il burro e il lardo ridotto in poltiglia e versa il tutto nella leccarda, ossia – se non lo sapete – nel piatto del forno in cui si raccoglie il sugo o il grasso che cola dall’arrosto. Infilza amorevolmente gli uccelletti nello spiedo del forno mettendo tra l’uno e l’altro un pezzetto di lardo e una foglia di salvia. Spennella gli osei frequentemente con il sugo della leccarda e li fa girare a fiamma forte. Dopo cinque minuti li spruzza con del sale e li serve con la polenta. A noi piacciono molto, soprattutto quando d’inverno si sta seduti di fronte al camino».

Il giovane Francesco, detto Cesco, garantì che bastava meno di 1⁄4 d’ora per portare a termine la cottura che, però, andava sorvegliata con attenzione, altrimenti gli uccelletti avrebbero potuto asciugarsi troppo; poi, riprendendo fiato, forse con po’ di nostalgia per la famiglia lontana, aggiunse: «Mia mamma, mentre noi figli giriamo lo spiedo, prepara la polenta versando lentamente la farina nel paiolo, e poi gira e gira con un bastone; quando è cotta la divide nei piatti mentre è ancora calda e poi vi dispone sopra uccelli e sugo».
La proposta di Francesco ebbe tra i giovani patrioti affamati un enorme successo che fu, però, di breve durata. Gli osei in numero sufficiente non c’erano! Intervenne allora Toni, un giovane studente di Treviso, che disse: «A casa mia quando non ci sono gli uccelli si fa così:  polenta e osei scampai».

Polenta e osei scampai
«Nel caso che gli uccelletti non fossero disponibili ad accompagnare la polenta e, come si suole dire, avessero tagliato la corda, occorre provvedere in altra maniera; a casa mia si procede così, ascoltatemi figlioli che adesso ve lo racconto.
Intanto vediamo gli ingredienti: per sei persone sono 600 gr di farina gialla, 200 gr di lardo o pancetta, 12 tocchetti di vitello, 6 fegatini di pollo, salvia, burro sale, pepe, spiedini di legno lunghi 15-20 cm.
Ed ecco cosa bisogna fare: si prepara una polenta ben sostenuta, la si fa raffreddare sul tavolo, la si pareggia e si ricavano delle fette quadrate. Si preparano quindi gli spiedini infilzandovi i pezzetti di carne di vitello, la salvia e il lardo, i fegatini di pollo. Si allineano in bell’ordine in una teglia, ci si mette sopra il sale, si spruzza del pepe e si fanno cuocere girando e rigirando finché non saranno ben rosolati.
Al momento di servire si friggono le fette di polenta nel burro e si dispongono sopra gli spiedini caldi e un po’ di sugo. Se poi qualcuno è delicato di stomaco e non gradisce il fritto (i gusti sono gusti e vanno democraticamente rispettati, specialmente da noi patrioti), occorre fare la polenta all’ultimo momento, con un impasto piuttosto morbido, e servirla calda nei piatti».

 Invece Mario, un giovane un po’ smunto che veniva da Mantova – famosa terra di fortezze, di grana reggiano o padano, e anche di zucche – disse che in caso di necessità, cioè se oltre agli uccelli mancava dalla tavola anche la carne, la sua mamma agiva in un altro modo, molto più semplice ed economico; questo: polenta con la zucca!

La polenta e zucca
«Spesso mia madre manda me e mio fratello a raccogliere nell’orto una bella zucca; noi con la zucca ci facciamo tante cose come i risotti, i tortelli, i dolci……. Per questa ricetta lei fa bollire la zucca nel paiolo di rame in una quantità d’acqua che è necessaria per cuocere la polenta; quando la zucca è quasi sfatta vi aggiunge nel solito modo la farina di mais. Gira continuamente – lamentandosi un po’ pel male di schiena – con un mestolo di legno per diversi minuti, fino al termine della cottura. Stende quindi la polenta sulla spianatoia e sopra vi aggiunge del grana grattugiato, che da noi non manca, e qualche spezia».
Questa proposta non ebbe però tanto successo e i commenti che seguirono alle parole di Mario possono essere sintetizzati nelle seguenti espressioni: «Ma questo è un mangiare da poveri! Sai che gusto!», «Nutritiva, veramente nutritiva per chi vuol morir di fame!», «Con un mangiare così, l’Italia non si fa!» . Mario ci rimase un po’ male, ma per amor di patria non lo dette a vedere; e a questo punto vogliamo precisare che i giovani, seppure affamati, erano quasi tutti borghesi o figli di nobili più o meno decaduti, abituati a mangiar meglio e più di una stupenda ma insipida zucca.

A proposito nella tab n.3  possiamo vedere i profili sociali dei garibaldini provenienti dal Veneto

Profili _personali_veneti_1000garibaldini

***

Girolamo_Induno: Sentinella garibaldina

Girolamo_Induno: Sentinella garibaldina

Nelle sere seguenti il gruppo di volontari – i componenti del quale avevano preso gusto nel presentare ricette di polenta delle proprie località – fece molte proposte e scoprì che alcune delle ricette erano simili, anche se erano dette in dialetti diversi. Noi qui non siamo in grado di riportarle tutte, facciamo una selezione trascrivendole però in lingua italiana… altrimenti che cosa hanno fatto a fare l’Unità d’Italia?
Dal Veneto provenivano varie persone, tra cui Alvise, un giovane di Venezia istruito e di buona famiglia, Giuseppe di Chioggia, un medico un po’ in là con l’età, e, infine, il vicentino Gio.Batta, di professione commerciante; essi proposero ben tre ricette, una con il fegato, le altre due al sapore di ‘mare’.
Ecco la prima, quella di Alvise: polenta con fegato alla veneziana.

Polenta e fegato alla veneziana
«Sapete ragazzi, ho letto una volta delle antiche cronache che affermavano che in Italia la prima utilizzazione della farina di mais avvenne a Venezia; io però non sono in grado di confermare o meno tale asserzione, posso solo dire che a Venezia, per secoli importan- tissimo porto commerciale, arrivava di tutto e quindi è presumibile che sia arrivata anche la gialla farina. Da ciò deduco che è verosimile che il popolino veneziano, non potendo allevare polli e porci e seminare il frumento nei campi e nelle calli, si sia subito industriato a rendere più appetitoso il miscuglio di farina e acqua utilizzando gli alimenti che aveva a disposizione. Il fegato, ad esempio, che in tempi antichi non trovava un degno posto sulle mense dei patrizi i quali erano impegnati, soprattutto, a consumare le carni bovine sotto forma di succulenti arrosti oppure la cacciagione di “penna” di laguna. Adesso vi dico che per questa polenta dal gusto un po’ inusitato alla mamma occorrono per sei persone (tanti siamo a casa) 600 gr di farina di granoturco a grana fine, 1⁄2 Kg di fegato di vitello, 1 Kg di cipolle e, naturalmente, olio, burro, sale e pepe.
Per prima cosa prepara una bella polenta ben soda, la sistema in forno affinché se ne stia tranquilla e soprattutto ben calda mentre si cuoce il fegato. Naturalmente, come ben si sa, anticipa la cottura in una padella di ferro delle cipolle, affettate sottili sottili; le cuoce in olio e burro con sale e pepe, a fuoco dolcissimo (io consiglio, per creare un po’ d’atmosfera, un sommesso accompagnamento di violini, oppure un adagio di Alessandro Marcello, oppure qualcosa di Vivaldi,   …a me la musica piace tanto!).
Per evitare che le cipolle brucino è necessario versare un spruzzatina di acqua (non però quella dei canali, proprio non ve la consiglio!).
Quando la cipolla è pronta, la mia mamma (sempre lei, un vero angelo del focolare come dice il nostro Mazzini) vi getta dentro il fegato tagliato a fette sottili, lo fa rosolare per pochi minuti, lo sala solo alla fine; terminata la cottura versa il fegato con tutto il sugo delle cipolle sulla polenta calda e, durante la digestione si abbia però l’attenzione di non alitare in faccia alle tose, cioè alle ragazze» .

Giuseppe, detto Bepi il Chioggiotto (o ciosotto), propose invece un’altra ricetta che, secondo lui, era veramente ‘la fine del mondo’ (e mentre parlava, pensando al piatto che la moglie gli aveva tante volte preparato, quasi quasi faceva le bave).

Noi come fedeli cronisti riportiamo le sue parole.

Poenta e bisato a la ciosotta  (polenta e anguilla alla chioggiota)
«Chioggia, amici miei, è città di mare e di lagune, quindi luogo dove giungono tante barche: qui è possibile poter trovare qualcosa di buono da accoppiare alla polenta e, diciamocelo, anche si dà al giallo miscuglio un maggior sapore.
Conosco gli ingredienti, ma non le dosi: sono convinto che ogni tanto bisogna lasciare qualche libertà di scelta a chi cucina: non ci battiamo noi per la libertà? Comunque ecco ciò che occorre oltre alla solita farina di granoturco: un’anguilla, olio di oliva, aceto, uno o due spicchi d’aglio, una cipolla, una foglia di alloro, poca farina bianca, sale.
Facendo attenzione che l’anguilla non sfugga dalle mani (a mia mogier, moglie pardon, è successo qualche volta) si pulisce bene strofinandola esternamente con un pezzo di carta dove sopra si è messo un bel po’ di cenere (di legna, non di pipe ciosotte, quelle puzzano); la si lava con l’acqua corrente per pulirla e sgrassarla. Giunti a questo punto si sventra l’animale e poi lo si taglia a pezzi; si prepara un battuto di cipolla ed aglio da fare imbiondire nell’olio di oliva; si aggiungono i pezzi di anguilla e si rosolano rapidamente, irrorando con qualche cucchiaiata di aceto.
Naturalmente si unisce una foglia di alloro, il sale e un po’ di acqua tiepida, poi si porta lentamente a cottura. Mia suocera, buon’anima, che Dio nella sua immensa bontà l’abbia in gloria, però faceva delle varianti: cuoceva l’anguilla anche spruzzandola di vino bianco e unendo un abbondante battuto di erbe aromatiche (prezzemolo, sedano, basilico, alloro e rosmarino). A volte ci univa anche salsa di pomodoro. Poi la presentava in tavola accompagnata dalla solita polenta».

Polenta e baccalà

Chi xe che ga inventà
Polenta e baccalà?
Dixemelo creatura
Sto nome, sto portento
Che toga le misure
Per farghe un monumento!
Dante, Petrarca, Tasso
Xe diavoli al confronto!
Omero xe un pagiasso
E Metastasio un tonto!”
(Agno Berlese)

Quando si parla di ‘polenta e baccalà’ il pensiero va a Trieste, a Muggia, all’Istria e alla notissima canzone in cui si parla di monti e di polenta, di mare e tocio, di polenta e baccalà e di grandi, immense, pantagrueliche tociade.
Spiace deludere i lettori di questa piccola rievocazione storica, ma di seguito – seguendo le indicazioni di GioBatta vicentino – andremo invece a trattare della polenta e baccalà alla vicentina: tociare comunque si può sempre, ed anche cantare, se il vino è quello buono dei Colli Berici o delle colline di Breganze.
Gio.Batta, a differenza di Bepi, per questa ricetta indicò gli ingredienti per 12 persone:
«Ci vogliono 1 kg di stoccafisso secco; 500 grammi di cipolle; 1 litro d’olio; 3 o 4 acciughe; 1⁄2 litro di latte; un po’ di farina bianca; 50 grammi di grana grattugiato; un po’ di prezzemolo tritato e, naturalmente, del sale e del pepe.
Prima di tutti si ammolla lo stoccafisso, già ben battuto, in acqua fredda che ogni quattro ore si cambia per 2 o 3 giorni;gli si leva parte della pelle, si apre per il lungo, si toglie la lisca e tutte le spine. Fatto questo si taglia pezzi quadrati, possibilmente uguali. Si af- fettano finemente le cipolle; le si rosola in un tegamino con un bicchiere d’olio, si aggiungono le acciughe dissalate, diliscate e tagliate a pezzetti; per ultimo , a fuoco spento , si unisce il prezzemolo tritato. Ma non è finita qua: si infarinano i vari pezzi di stoccafisso , si irrorano con il soffritto preparato, poi li si dispone uno accanto all’altro, in un tegame di cotto; si ricopre il pesce con il resto del soffritto, si aggiunge anche il latte, il grana grattugiato, il sale, il pepe, si unisce l’olio fino a ricoprire tutti i pezzi, livellandoli.
Credete che sia pronto? O no, mentre fate qualche partita a scopone o fumate la pipa si cuoce a fuoco molto dolce per circa 4 ore e mezzo, muovendo ogni tanto il recipiente in senso rotatorio, senza mai mescolare. In termine vicentino, questa fase di cottura si chiama “pipare”. Solamente l’esperienza saprà definire l’esatta cottura dello stoccafisso che, da esemplare ad esemplare, può differire di consistenza; se asciuga troppo bisogna provvedere subito aggiungendo il latte, tanto nella stalla le mucche non mancano. Si serve ben caldo con polenta in fetta : il baccalà alla vicentina è ottimo anche dopo un riposo di 12-24 ore».

A sentir parlare di latte intervennero subito degli altri volontari: erano piemontesi. Come sapete il Piemonte è terra di Re e di Leghe, e in Val d’Aosta – in quella che allora era una sua provincia – nei pascoli alpini vi è gente bilingue e anche mucche ‘reine’. In quei luoghi è stata realizzata e codificata una gustosa lega di farina gialla e di bianco formaggio. Eccola qua, come la raccontò Luigi, un po’ in italiano, un po’ in francese (noi però la riportiamo in lingua) :
«Quando siamo lassù in malga, nei verdi prati puzzolenti, ci forniamo di questi ingredienti per 6 persone: 800 gr di farina gialla, 800 gr di fontina Valdostana a fette (attenti però che sia proprio la nostra!), 2 etti di burro, del parmigiano e, naturalmente, del sale e pepe. Come si fa? E’ semplice, così:
«Quando andiamo al Santuario (nei dintorni ci sono stalle con mucche della razza piemontese proprio di Oropa) ci portiamo dietro questi ingredienti per 6 persone: 600 gr di farina gialla, 300 gr di Polenta consa Valdostana»

Polenta consa Valdostana
Preparate una polenta; a parte, tagliate la fontina a fettine. In una terrina, disponete uno strato di polenta e uno di formaggio, continuando ad alternare formaggio con polenta e terminando con il formaggio. Versate sopra il burro fuso, mentre frigge. Mettete quindi in
forno per 10 minuti e … servite. E se non avete il forno prendete un tegame col coperchio, mettete della brace sotto e della brace sopra, bisogna sapersi adattare in questo mondo. Parbleu!
Alfredo, un piemontese di Biella, disse che anche dalle sue parti si faceva la polenta, ma che nella sua parlata era detta Polenta Concia; si faceva così:

Polenta concia di Oropa
«Toma piemontese, anzi per meglio dire di Biella, di 300 gr di fontina Valdostana (quella loro, di Gressoney!), del burro, del parmigiano e, naturalmente, del sale e pepe. Non sapete cosa è la toma? Adesso ve lo spiego così imparate qualcosa: le tome sono delle forme rotonde non tanto grandi, hanno la crosta elastica e liscia con un bel colore paglierino, bruno rossiccio, a seconda della stagionatura, la pasta ha un colore giallo paglierino con occhiatura minuta e diffusa; il sapore che ne deriva è dolce e gradevole, di aroma delicato. La produzione di questo formaggio è molto antica, pensate che era detto anche ‘Formaggio per i poveri’ perché figurava nei ‘pastus’ distribuiti ai poveri e ai lavoratori subalterni.
Un tale Pantaleone di Cofienza tanti anni fa scrisse che i formaggi  “…mentre invecchiano avviene in essi una tale fermentazione che acquistano sì sapore, ma molto piccante, tanto che sono detti assai utili per i poveri, in primo luogo perché a causa del loro sapore piccante ne mangiano poco. In secondo luogo, si dicono utili ai poveri perché questi, nelle pietanze fatte con quei formaggi, grazie al loro pizzicore sono dispensati dall’usare spezie e sale”.
Adesso vi dico cosa facciamo noi ad Oropa: in una casolare lì nei dintorni, o all’aperto se il tempo è buono, girando girando ed ancora girando nel paiolo mestolo facciamo una morbida polenta; ad essa uniamo la toma e la fontina a tocchetti e facciamo cuocere, sempre girando (organizzando dei turni) per circa tre quarti d’ora. Quando la polenta è quasi cotta, lentamente facciamo imbiondire in un pentolino il burro in modo che sia pronto al momento in cui la polenta – bella calda e fumante – verrà scodellata nelle scodelle. E con un elegante tocco spolveriamo con grana e pepe. E voilà, buon appetito a tutti!»

Ermanno, un bella testa rossa che veniva dalla pianura, quella che qualcuno adesso vuole chiamare Padania, propose un altro piatto sempre imparentato con un latticino.

Polenta con il pozzetto di burro
«Per la mia ricetta – disse il rude e rosso Ermanno – con gli ingredienti ce la sbrighiamo presto: ci vogliono per 6 persone – oramai adottiamo questo numero – 600 gr di farina gialla, 300 gr di burro e del sale, quanto basta.
Una volta che abbiamo questi pochi, ma essenziali ingredienti andiamo a preparare la polenta che, una volta cotta, rovesciamo dal paiolo sul tavolo (possibilmente precedentemente opportunamente nettato, io sono un fanatico della pulizia) e la stendiamo in modo che lo spessore non sia inferiore a 2 cm. Quindi la facciamo raffreddare quanto basta e poi la si taglia a fette quadrate: le fette vengono arrostite lentamente sulla graticola o sul treppiede posto sul focolare. Mentre sono ancora caldissime, si scava nel centro di ciascuna un pozzetto e lo si riempie di burro oppure, cominciando dall’esterno di ciascuna fetta, si tagliano via via dei tocchetti da intingere nel burro e, senza perdere tempo in inutili chiacchiere e convenevoli, si mangiano ben caldi. E’ una roba semplice, ma sostanziosa, parola mia!».

Filippo Pelizzi : Garibaldini

Filippo Pelizzi : Garibaldini

Anche Renzo, un artigiano proveniente dai dintorni di Milano, volle proporre qualcosa di diverso:

Polenta e gorgonzola
«Sapete che cosa è il gorgonzola? No? E’ un formaggio tenero che si fa soprattutto a Gorgonzola, un paese vicino a Milano; lì, ancor prima di Federico Barbarossa, si riunivano le mandrie che in autunno rientravano dall’alpeggio. La leggenda narra che, nei pressi di una taverna, un contadino di nome Piermarco Bergamo sia stato il vero artefice della scoperta del formaggio e essendo il primo a degustarlo abbia esclamato: ‘Questo formaggio è magico, ben presto tra un paio d’anni diventerò l’uomo più conosciuto al mondo!’. Invece, passati diversi anni dalla sua frase, il gorgonzola è diventato uno tra i formaggi più conosciuti al mondo, a differenza del suo stesso scopritore. Il formaggio, anche quando è stagionato, è molle, erborinato, un po’ puzzolente, è vero, ma saporito e adatto per condire anche la polenta.
Ecco come facciamo prepariamo la polenta come al solito, ma di buona consistenza,, la rovesciamo sul tavolo di cucina e la stendiamo con le mani bagnate in modo che il suo spessore risulti di circa 2 centimetri. La facciamo raffreddare bene e poi la tagliamo in pezzi della forma e della grandezza che si preferisce; la collochiamo in una padella in attesa di riscaldarla. A parte impastiamo in una ciotola il gorgonzola con il burro e il prezzemolo; intiepidiamo le fette di polenta fino a farne dei crostini, e spalmiamo i crostini che ricopriamo con il gorgonzola.
Quanta roba serve? A testa pressappoco un’ottantina di grammi di farina di mais, 50 grammi di gorgonzola, 30 di burro, un po’ di prezzemolo tritato e il sale».

La partenza e la sosta a Talamone. La partenza da Quarto dei volontari garibaldini
E così, tra una polenta e l’altra, passarono per i nostri aspiranti eroi le serate in quel di Genova, finché non venne la notte dell’imbarco su due vapori che li attendevano al largo. Molti patrioti non avevano mai visto prima di allora il mare, figuratevi cosa provocò a molti di essi la navigazione in mare aperto: si accodò alle navi una scia di pesci a caccia dei residui delle passate e non completamente digerite polente! Ma su questo fatto né la Storia ufficiale, né le cronache di Abba parlano: nulla ci dicono del mal di mare che colpì molti di quei prodi.
Le navi dopo non molte ore raggiunsero però una fortezza sulla quale già garriva il tricolore: “Ecco la Sicilia!!!”, qualcuno gridò, ma si sbagliava; erano giunti a Talamone, in Toscana. Qui cercarono delle armi: cannoni, fucili, munizioni, altrimenti come avrebbero potuto fare l’Italia non solo senza divise, ma anche con poche e scassate armi? Mentre il Generale si dava da fare per armare ed organizzare i suoi volontari, questi si sparsero per il territorio. Il nostro gruppetto di amici finì non per caso in un’Osteria, e già che c’erano ordinarono da mangiare. Cosa? Una polenta toscana, naturalmente! L’ostessa, una donna alta e mora e pettoruta, che si rivolgeva al marito con un certo imperio, si diede subito da fare per preparare una speciale polenta con l’ossobuco. Ecco il racconto di uno dei reduci:

Polenta con l’ossobuco di vitello
«Innanzi tutto si fornì degli ingredienti: gli ossobuchi di vitello, di quelli che hanno da quelle parti: bestie bianche con le grandi corna; poi prese delle zucchine, una carota, delle cipolle bianche, qualche patata, dei fagioli che aveva già in ammollo, del vino bianco, un po’ di brodo di verdure, uno spicchio d’aglio, del burro e dell’olio che lì fanno proprio buono, un po’ di farina, il sale e il pepe.
Poi si mise a incidere i bordi degli ossibuchi (lei diceva ossibu’hi, nel suo strano linguaggio) e li infarinava e li rosolava col burro e l’olio, ci metteva anche un po’ di vino li salava e pepava. Univa poi le cipolle affettate e l’aglio, ci aggiungeva un po’ di brodo e portava il tutto a cottura sul fornello, ma a fuoco basso. Dopo un po’ di tempo aggiungeva le altre verdure tagliate a pezzetti, poi vi versava i fagioli ben ammollati. Tutto questo serviva per condire e far di contorno a una bella polenta che Maria, forse una sua figliola, aveva intanto preparato sul fuoco del camino».
Il giorno dopo l’ostessa, il cui nome purtroppo non ci è stato tramandato, ma che tanto però contribuì al nostro Risorgimento, preparò per la truppa insorgente un altro piatto tipico del posto, preparato però con un altro tipo di carne, quella di capra:

Polenta e capra
«Sapete cosa fece l’ostessa? Prese della carne di capra un po’ in là con l’età, la tagliò a pezzi e la fece scottare in padella; in una casseruola fece soffriggere cipolle, sedano, carote, aglio, prezzemolo e pomodoro, ci aggiunse la capra e portò tutto a cottura con del brodo. Poi, naturalmente servì la carne calda con la polenta. Era buona? Direi di sì, ma a qualcuno però non piaceva il sapore della carne di capra, forse era troppo vecchia e sapeva un po’ di selvatico».

In Sicilia con i Mille. Garibaldini a Calatafimi
A Talamone i nostri amici stavano bene, però venne l’ordine di partire: il Generale aveva trovato un po’ di schioppi, qualche cannone e aveva messo ai volontari qualche camicia rossa, a mo’ di divisa. Dopo un paio di giorni di navigazione e di lezioni di teoria militare, i nostri sbarcarono a Marsala. La gente li guardava e si domandava chi mai fossero e da dove erano venuti e dove soprattutto volessero andare. Se lo domandò anche un generale Borbonico, tale Landi mandato a Calatafimi con tremila esperti soldati per togliere dalla testa agli incauti certi grilli patriottici. In questa sede non ci dilunghiamo a parlare di come andò la battaglia e della famosa frase che il Generale pronunciò: ‘Qui si fa l’Italia o si muore!

Qui si fa l'Italia o si muore!

Qui si fa l’Italia o si muore!

Vi diciamo solo che nella sera del 15 maggio 1860, mentre i Borbonici erano in fuga, i nostri amici si ritrovarono in un casolare di campagna insieme a dei picciotti, pur essi dei volontari. Pur essendo i loro linguaggi molto diversi riuscirono a spiegarsi e a dire che ave- vano fame, che volevano qualcosa da mangiare, magari caldo. Non vi dico la loro sorpresa quando sulla tavola trovarono una polenta condita con degli scampi e della cicoria rossa. Qualcuno, preso dall’entusiasmo salì su una panca e, sguainata la sciabola e parafrasando il Generale, urlò: “Qui o polenta o si muore!
Ma come era questa prima sicula polenta? Da un’attenta e rigorosa ricerca d’archivio siamo riusciti ad avere queste indicazioni.

Polenta con scampi e cicoria rossa
“Incominciamo dagli ingredienti: farina gialla, dei cespi di cicoria rossa, degli scampi pescati nel mare di Sicilia, un po’ d’aglio e del limone; poi naturalmente olio, sale e pepe. Con questi ingredienti si fa così: si prepara una polenta morbida mentre la cicoria è tagliata a striscioline e disposta in una grande insalatiera. In un tegame viene scaldato l’olio dove si fa dorare l’aglio prima dall’eliminarlo; si aggiungono gli scampi che si lasciano rosolare per pochi minuti a fuoco vivace. Si procede poi alla loro salatura e bagnatura col sugo di limone e quindi si uniscono alla cicoria. Quando la polenta è pronta si versa sopra; qualche minuto di meditazione per fare raffreddare il cibo e poi… si mangia!”

Giovanni Fattori: L’entrata di Garibaldi a Palermo
Trascorsero pochi giorni e Garibaldi, sconfitti i Borbonici a ponte dell’Ammiraglio, entrò in Palermo con le sue entusiaste e esauste truppe, un poco sgangherate; il bergamasco Nullo, come ci racconta la storia ufficiale, issò la bandiera, il tricolore. I garibaldini si sparsero per la città e il nostro gruppo di amici, detto oramai ‘Plotone Polenta’, si ritrovò in un mercato popolare, forse era Ballarò. Qui tra i tanti cibi esposti e venduti c’era anche un’Osteria che preparava da mangiare; i nostri non se lo fecero dire due volte, si fermarono e riuscirono ad ordinare una polenta. Volete sapere cosa fu loro portato? Una specialità dell’isola, una propria leccornia:

Polenta e coniglio a pezzetti
«Per preparare questo piatto – disse un picciotto che si era oramai aggregato definitivamente al ‘Plotone polenta’ – ci vogliono tanti ingredienti, che in questa zona è facile trovare, ed anche un po’ di tempo per la preparazione. Incominciamo dagli ingredienti: del coniglio, del vino rosso siciliano, del lardo, un po’ di zucchero, un po’ di rum, poca farina e poco cacao amaro in polvere; ci vogliono anche della cipolla tritata , carota, sedano, alloro, timo, rosmarino, salvia basilico, chiodi di garofano, olio, sale e pepe. E poi naturalmente della farina di polenta. E si procede così: si pulisce il coniglio che si taglia a pezzi regolari e poi si mette in una terrina e si ricopre con il vino rosso, si uniscono tutti gli aromi e si lascia marinare per 48 ore. Dopo questo tempo (non vi preoccupate è già stato fatto!) si scola il coniglio dalla marinata, si asciuga bene e si fa rosolare in una padella con l’olio, il sedano, la cipolla e la carota tritati e il lardo pe- stato. A metà cottura si sala e si pepa; poi si aggiunge un po’ di marinata e si fa cuocere a fuoco lento per un’oretta.
In un’altra casseruola si fonde un po’ di burro, si unisce lo zucchero, il cacao, la farina e il rum. Si mescola bene in modo d’avere una salsina senza grumi che si unisce ai pezzi di coniglio. Amalgamate bene e servite il coniglio in salmì con una fumante polenta. Dite che ci vuole troppo tempo e che la Patria non può attendere? Calma giovanotti, qua è già tutto pronto, c’è il mercato e le osterie lavorano a ritmo continuo».

A Napoli, tra Repubblica e Monarchia
Trascorsero poche settimane e Garibaldi e i suoi sbarcarono in Calabria e poi, combattendo ogni tanto, arrivarono a Napoli dove il popolo li accolse con entusiasmo.
Il nostro ‘Plotone Polenta’ si sistemò abbastanza bene e, discutendo di repubblica e di monarchia, si ritrovò dalle parti del Vomero in una osteria; lì, continuando a discutere, mangiarono anche. Che cosa? Polenta, naturalmente, così condita (sempre secondo la testimonianza di un partecipante):

Mozzarella in carrozza di polenta
«Da queste parti fanno dei formaggi particolari, sia come sapore che come forma: le chiamano mozzarelle, provole, caciocavallo… Carmela, l’ostessa, prese della farina gialla, del formaggio scolato chiamato mozzarella, un po’ di farina bianca, delle uova e olio e sale. Preparò innanzi tutto la polenta che poi rovesciò su un tavolo in cucina, con le mani bagnate la stese in modo che il suo spessore fosse di circa 1 centimetro; la fece raffreddare e poi la tagliò a fette quadrate di 5-6 centimetri di lato. Prese quello strano formaggio, la mozzarella, e fece delle fettine un po’ più piccole della polenta: mise ogni fetta di formaggio tra due fette di polenta, le infarinò, le passò nell’uovo sbattuto col sale e subito le mise nella padella con l’olio bollente, poi le servì immediatamente.
Che buone! Che profumo! Ritornammo in quel locale il giorno dopo e la cuoca ci preparò, nello stesso modo, la polenta che faceva da ‘carrozza’ a delle fette di un altro formaggio ben scolato: ci disse che si chiamava provola. Così smettemmo di parlare di repubblica e monarchia, discutevamo se erano più buone le carrozze di polenta con la mozzarella oppure quelle con la provola».

Il Generale, oramai al comando di un vero Esercito, inseguì i Borbonici che si erano ritirati poco più a Nord; qui le difficoltà aumentarono e i soldati nemici combattevano maggiormente. Re Vittorio Emanuele II, nel frattempo, era entrato nello Stato Pontificio e senza grandi difficoltà aveva conquistato l’Umbria e le Marche; ora attraversando gli Abruzzi si stava dirigendo verso la Campania per sostituire Garibaldi di cui mica si fidava tanto. Alla fine di ottobre del 1860 si incontrarono.

Gli incontri di Teano
Per gli storici ufficiali fu solo uno, tra il Generale e il Re lungo una stradella di campagna nei pressi di Teano; ma noi da diverse fonti abbiamo saputo che ci furono altri incontri. Questi avvennero soprattutto nelle osterie e nei casolari tra i garibaldini (ormai ex) e dei soldati sabaudi. Superata l’iniziale diffidenza, cominciarono a comunicare fra loro e a scambiarsi notizie delle esperienze militari che avevano fatto.
I garibaldini parlarono dei picciotti e del soldati borbonici, i sabaudi dei non molti soldati pontifici che avevano trovato per strada. Poi, quando la confidenza aumentò, parlarono di altre cose: della gente, di donne e infine del mangiare. I nostri amici dissero che erano stati soprannominati “Plotone Polenta” perché’ dove capitavano cercavano di mangiarla, come si dice, in tutte le salse.
Anche i sabaudi avevano fatto delle esperienze simili nello Stato Pontificio; Romualdo, un caporale scelto del Generale Cialdini, raccontò che dopo Castelfidardo nei pressi di Macerata si fermò a mangiare in un casolare una strana polenta, fatta così:

Il polentone marchigiano
«La contadina anziana, che li chiamano vergara, prese della farina di gran turco, dell’olio di oliva, un po’(tanto) di pancetta di maiale, delle salsicce, del formaggio pecorino grattugiato (lì il grana nostro non l’hanno), del pepe e del sale. Si mise poi a fare la polenta, era piuttosto densa, la versò su un canovaccio un po’ bagnato e la fece raffreddare; quindi con un filo la tagliò a fette che dispose in una grossa teglia. Ogni strato di polenta era condito con il sugo di pancetta salsiccia e con abbondante pecorino grattugiato. Poi ha messo la teglia sull’arola, cioè il piano del camino, con della brace sotto e con della brace sopra. Era un piatto molto gustoso e, credo, anche piuttosto energetico».
A questo punto intervennero due bersaglieri piemontesi, dei quali malgrado le nostre più accurate ricerche, non siamo riusciti a conoscere il nome. Chiediamo scusa ai nostri lettori e riportiamo quanto essi dissero tra un boccone e l’altro (e anche tra un boccale e l’altro di rosso locale):

Le picene polente col sugo
«A parte quello che loro chiamano polentone, c’è anche la polenta sulla spianatora; per loro mangiare insieme la polenta è un rito. Per le donne che girano il bastone è invece quasi una sofferenza. Una volta una donna ci disse che era meglio fare un figlio che la polenta, che esagerata!
Noi l’abbiamo mangiata una volta col sugo rosso, un’altra volta invece con il sugo bianco. Per il primo sugo prendono della carne mista di manzo e maiale, delle salsiccie, un pezzo di pollo, le interiora del pollo (maghetti o durelli, in quella zona li adoperano sempre). Tagliano tutto a tocchetti; in una casseruola li tritano e fanno dorare una cipolla e una carota, con olio buono. Aggiungono la carne e rosolano per una decina di minuti sfumando con del vino bianco e versando spruzzata di grappa, salano, pepano e spruzzano di noce moscata. Alla fine aggiungono parecchi pomodori pelati passati nel passaverdure, dei chiodi di garofano, alcuni rametti di basilico e fanno alzare il bollore; fanno bollire non meno di un’ora (ma anche di più) a fuoco lento. Per il sugo bianco adoperano invece lonza di maiale fresca, salsiccie fine, pancetta magra, costar elle di maiale (o costine, dipende come le volete chiamare) tagliate a pezzi piccoli. Si taglia tutto a tocchetti; in una casseruola da forno si fa dorare uno spicchio d’aglio con rosmarino, salvia, timo, maggiorana e la pancetta. Si aggiunge la carne che si rosola per una ventina di minuti sfumando con del vino bianco e della grappa, si sala e si pepa. Si fa cuocere con bel fuoco per una quarantina di minuti».

Ernesto, un emiliano buona forchetta, cavalleggero di S.M., durante la spedizione tra il Nord e il Sud aveva mantenuto i rapporti tra il Generale Cialdini e il Generale Fanti impegnato in un percorso più interno; in questo modo ebbe occasione di visitare diverse taverne e osterie.
Alzò una mano per richiedere l’attenzione della compagnia e volle dire la sua:

Polenta e salsiccia nello Stato della Chiesa
«Questa ricetta può essere considerata come la ricetta dello speriamo presto ex-stato pontificio o, se si preferisce un’indicazione più precisa, di Pio IX; infatti essa è comune nelle tre regioni che abbiamo attraversato e che appartenevano allo Stato della Chiesa (Lazio, Umbria, Marche). Detto questo vi dico come la fanno:prendono la farina gialla di grana fine, i funghi freschi, abbastanza salsiccia, più del doppio di polpa di pomodoro, cipolla, carota, sedano, olio, sale, pepe, pecorino.
Fanno cuocere le salsicce in poco olio, quando sono rosolate le fanno raffreddare, le spellano, le sbriciolano e le mettono in un piatto. Nello stesso olio cuociono i funghi e poi li uniscono alla salsiccia. In un tegame con un po’ d’olio fanno imbiondire carote, cipolle e sedano tritati, aggiungono il pomodoro e il sale.
Infine aggiungono le salsicce e i funghi e fanno insaporire per pochi minuti. Preparano una polenta di media consistenza che dividono nelle ciotole, vi fanno cadere un abbondante pioggia di pecorino grattugiato e vi versano le salsicce ben calde.
E’ un piatto simile agli altri ma ha qualcosa in più, quando si è finito si dice che si è mangiato da Dio!».

Il percorso dei Mille garibaldini in una cartografia dell'epoca

Il percorso dei Mille garibaldini in una cartografia dell’epoca

Polenta e porco

Quannu sento parlà de la pulenta
L’occhio me ride, l’aria m’accalora
Lo stomaca se lagna e ‘n vede l’ora
De fa la panza mia tanto contenta.
E quanno fuma su la spianatora
Ce metto er dito pe’ sentì s’è lenta;
La sarsiccetta complice me tenta
De fa l’assaggio ar bordo fora fora.
Quell’ora giallo che me n’voja tanto
Co’ sopra quel sughetto appetitoso
E er cacio pecorino ch’è un incanto!!!
‘Na vorta, me ricordo, ero già sposo,
p’annammela a magnà ci ho quasi pianto
… perché scottava! Quanto so’ goloso!!!

Epilogo
Il Generale dopo l’incontro di Teano lasciò al Re baffuto l’impresa militare: se ne andò in vacanza, o meglio vi fu mandato, tra la delusione dei repubblicani e di molti garibaldini.
Si ritirò nell’isola di Caprera portando con sé – almeno così scrisse sul suo giornale Alessandro Dumas – una balla di stoccafissi, una cassa di maccheroni, un sacchetto di zucchero, alcuni barattoli di caffè, un sacchetto di sementi. Quali sementi? Ancor oggi gli storici si domandano se erano di frumento o di formentone, cioè di granoturco, la mate- ria prima per fare una bella polenta.
Anche i volontari garibaldini si dispersero: vi fu chi ritornò a casa e chi andò a combattere con l’esercito sabaudo. Venne anche la fine del ‘Plotone Polenta’.
A chi ritornava a casa via terra fu raccomandato di fare attenzione ai briganti che infestavano la campagna. «Briganti, quali briganti?» «Garibaldi quando passava decideva di fare la riforme per le povere popolazioni, poi venivano gli altri, abolivano le riforme, ritornavano i ricchi prepotenti. Le popolazioni hanno protestato: i banditi ed ex soldati borbonici si sono dati al brigantaggio: rivogliono, dicono, il loro Re, quello borbonico».
Con questa ulteriore delusione i nostri si incamminarono, ognuno per la propria strada: lungo il percorso cercarono di consolarsi con altre calde polente.

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Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento “garibaldini” si segnalano:

  1. Alla ricerca dei garibaldini scomparsi
  2. Da Montemerlo al Volturno. La storia documentata di una “garibaldina” veneta 
  3. Museo nazionale della campagna garibaldina dell’agro romano per la liberazione di Roma

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E entratovi vidi un albero,
e dalle sue radicei scorreva l’acqua,
ed era quella la sorgente dei quattro fiumi,
e lo Spirito di dio riposava su quell’albero.

— Paolo, Apocalisse apocrifa

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