FASEMO FILO’
Riproponiamo lo scritto-memoria di Luciana Bellunato, per ricordarla come socia attiva di Terra antica scomparsa il 16.1.2019.
Testimonianze della 2a guerra mondiale a Favaro Veneto
di Luciana Bellunato
I Partigiani
La nostra casa, a Favaro, era come un punto di ritrovo; i carabinieri, che avevano la caserma dall’altra parte della strada, erano sempre lì davanti; c’è il pozzo e venivano tutti a prendere l’acqua e si era familiarizzato con tutti.
Venivano anche Cartafina e Negri, due fascisti, che erano sfollati a Favaro da Mestre con le famiglie e abitavano nella caserma dei Carabinieri. La gente eravandata ad abitare lì perché i carabinieri, dopo il furto delle armi, erano andati via.
Avevamo i campi intorno alla casa, con una siepe e fossi intorno; lì ci rifugiavamo durante i bombardamenti, lì si riunivano anche i partigiani.
Dopo il furto delle armi dalla caserma la nostra casa fu presa di mira; vi furono degli atti di vandalismo, portavano via tutto quello che trovavano. In casa avevamo due partigiani nascosti che Bepi aveva portato nel settembre 1944; erano feriti. Non potevano convivere completamente con noi in casa, allora aveva preparato sotto il fienile un rifugio; aveva tolto delle pietre dal muro che dava all’esterno per fare passare l’aria, aveva fatto un cunicolo, con il fieno tutto sopra, dove poter mettere queste due persone.
Siccome erano ferite ed avevano bisogno di essere curate e avevano bisogno di mangiare, aveva aperto una botola sul pavimento che dava sulla stalla che era di sotto.
Io e mia madre, alla sera, quando tutti erano andati a letto, facevamo finta di niente e portavamo qualcosa da mangiare a questi due partigiani. Battevamo con un bastone, tiravano su la botola, e gli passavamo da mangiare.
Loro per respirare meglio avevano fatto anche dei buchi nel pavimento. Nella stalla c’erano le bestie; avevamo una vacca, delle galline.. Il nonno andava a mungere la vacca, ma non sapeva niente dei partigiani.
Il nonno, che era una persona già anziana e che andava spesso all’osteria qua in piazza dove c’era il gioco delle bocce, non doveva sapere niente, per cui questi due poveretti, che erano lì sequestrati, assistevano a lui che mungeva la vacca, che portava da mangiare, che parlava con l’Ofelia – la vacca si chiamava così – che l’accarezzava; e non sapeva che lì sopra c’erano questi due personaggi; era tenuto all’oscuro di tutto perché avevamo paura che parlasse, usciva tutti i giorni e, bevendo un bicchiere in più, poteva confidare che c’erano queste presenze che dovevano essere segrete a tutti. Sapevamo solo io, mia madre e mia nonna, in tre su quaranta persone. E “Bepi” era sempre via, alla macchia, nei dintorni.
Nel ’44 non solo avevamo questi due partigiani, ma in fondo, due campi più lontano, sempre in mezzo alle canne, avevamo creato un’altra base e lì c’erano degli altri uomini che erano scappati, alcuni erano feriti, altri erano ricercati, come il cugino del papà che lavorava in banca; e allora di sera portavamo le coperte, da mangiare, da pulirsi. Andavamo per mano, madre e figlia, facevamo finta di fare una passeggiata.
Qualche nota positiva
“Quando so andà in ospedal per il tifo – so andà in barca – de qua al Passo Campalto me ga portà un tedesco in machina.”
In quel periodo così brutto, vi era anche qualche nota positiva a riguardo dei tedeschi. Due sorelle di mia madre erano andate a lavorare in Comune alle dipendenze dei tedeschi; si era stabilito un rapporto di amicizia con alcuni di loro e qualche volta di sera, se c’era di guardia uno che ci conosceva, ci davano il burro, la carne, il pane da portarci a casa.
C’era anche questo senso di carità e mi ricordo che qualche volta venivano a portarci qualcosa da mangiare a casa. Ci avevano portato poi via tutto, tra l’altro. Inoltre la nostra casa aveva il pozzo, le stalle e tutto questo spazio intorno di cui si servivano anche loro.
Una volta i tedeschi ci portarono un carro di pagnotte di pane nero – che era acido – e si portarono via tutte le galline. Nel campo vicino alla casa i tedeschi avevano stabilito una loro sede, avevano fatto una buca grande per tutta la lunghezza del campo, l’avevano coperta con dei rami e con delle canne, avevano messo le cucine da campo proprio lì sotto. Nel resto del campo ci facevano tutte le mattine le esercitazioni, per cui nella nostra casa non abbiamo mai vissuto un giorno tranquilli, mai; perché avevamo sia i fascisti che cercavano i partigiani, sia i tedeschi che avevano invaso la casa, più i partigiani nascosti.
(Albina Bernardi e Luciana Bellunato)
Dopo hanno lasciato tutti il nostro cortile e si sono diretti in altri campi vicini dove sostavano in quel periodo delle giostre – c’era una giostra a catenelle e le barchette – e c’erano le carovane e le abitazioni delle persone. M. disse: “Allora bruciamo queste! ” La padrona delle giostre, che era una persona dinamica, è uscita e ha cominciato a combattere con loro, ha fatto uscire il padre, la madre, tutti gli altri e insieme si sono opposti ai fascisti.
“Prima uccidete noi, poi date fuoco alle giostre! ”
I fascisti hanno proseguito e sono andati in piazza e hanno preso gli operai che lavoravano in Comune per i tedeschi e li hanno portati alla Casa del Fascio a Mestre. Ma poi il comandante dei tedeschi è andato a riprenderseli dicendo ai fascisti: “Questo non lo potete mica fare !”.
Quel – le abbiamo passate di tutti i colori: hanno ucciso un ragazzo, volevano uccidere noi, volevano bruciare la casa, eccetera.
Era Pasqua, il primo di aprile; i fascisti bruciarono dei casoni per rappresaglia per l’attentato di via Pasqualigo.
(Albina Bernardi e Luciana Bellunato)
La fine della guerra
Il 28 aprile 1945 io ero impiegata al municipio di Favaro ed ero andata alla Cassa di Risparmio di Mestre a piedi perché i tedeschi portavano via le biciclette. Quando sono arrivata a Favaro ho visto una grande confusione, i tedeschi avevano sparato un colpo di cannone sull’archivio del Municipio. Sono entrata nell’edificio e ho visto tutti gli impiegati in subbuglio, siamo usciti tutti fuori dalla finestra. Io sono corsa a casa di Renato, il mio fidanzato, e poi a casa di amici al sicuro. I tedeschi avevano preso degli impiegati, il medico Bazzarin e Rossetto, il proprietario del negozio di alimentari.
Li avevano presi in ostaggio perché un partigiano aveva ferito un tedesco sulle scale che portavano alla sede del Partito Fascista nel piano centrale del Municipio.
“ Ti sa che i xè drio coparli! – Me gà quasi ciapà mal! “
Tutto però poi si è risolto bene.
La resa
A Tessera è avvenuto l’incontro tra Tedeschi e alleati. Il 28 aprile 1945 era avvenuta a Venezia l’insurrezione contro i tedeschi. Nella notte tra il 28 e il 29 aprile i tedeschi sono giunti nel podere dei Baroffio a Tessera.
Si sono fermati, qualcuno è entrato da noi, altri sono rimasti di fronte alla strada (a destra da Venezia) vicino alla casa dei Marangon. I primi sono entrati nella cucina della casa del boaro, hanno buttato nel fuoco i loro documenti e la carta moneta. C’erano anche soldati di una certa età, in tutto più di un centinaio. Hanno atteso, hanno fatto un rancio. Noi non potevamo muoverci, ma io ho portato lo stesso mia madre e i bambini di mio fratello a casa dello zio a Tessera.
Tra donne e uomini noi eravamo una ventina di persone, si può immaginare con che animo abbiamo atteso anche noi.
Tanti tedeschi parlavano in italiano e raccontavano che erano stufi, che volevano tornare a casa, che erano contenti che la guerra fosse finita. Al pomeriggio verso le due è arrivata la colonna con i carri armati inglesi da Trieste, la 5^ colonna. Nel tratto di strada davanti alla casa i tedeschi si sono allineati in posizione di difesa, col fucile spianato. Tutti noi eravamo spaventati. “Qua i ne fa saltar tuti!“.
Un’immagine terribile
“Quando c’è stata la liberazione, è stato preso il professore di Spinea e lo hanno caricato su un camion alla berlina di tutti – e lo hanno portato davanti alla caserma. Purtroppo questa persona le aveva combinate proprie tante: aveva fatto fucilare tanta di quella gente… Era legato su una sedia ed era malmenato dalle persone che venivano e si vendicavano. Dovevano fucilarlo invece di portarlo sul camion.”
Lo hanno torturato; lo ricordo come un’immagine terribile.
(Luciana Bellunato Nardin)
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Il rispetto della tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco.