di Moreno Favaretto
“Moèca” è il nome che i veneziani hanno dato al granchio locale(“granzo” comune o granchio ripario Carcinus aestuarii), quando esso arriva al culmine della fase di muta (in primavera e in autunno), con la perdita della sua corazza e prima che, in poche ore, a contatto con l’acqua salmastra o salata, se la ricostruisca.
Questa prelibatezza è definita anche la pepita veneziana. Il termine “moèca” ha, però, un altro significato: esso si associa anche all’effigie del leone di San Marco alato, simbolo della città, che sorge dalle acque (“el leon in moèca”).
Quella delle “moèche” è una tradizione antica, ne parlava già nel Cinquecento il commediografo Andrea Calmo: «Mi vegno da Treporti, dove se descortega i granzi». È una storia che si perde nel tempo, fino al 1729, quando l’abate Giuseppe Olivi annota tra le pagine della sua Zoologia Adriatica: «I granchi per acquistare il loro accrescimento cambiano ogn’anno crosta. Nei momenti che precedono la muta i nostri pescatori li raccolgono e radunabili in carnieri tessuti di vinchi, volgarmente viero, li collocano a mezz’acqua nei canali. La nuova situazione non impedisce loro di svestirsi: essi perdono la vecchia crosta, e compariscono coperti dalla nuova, ancor molle e membranosa: in tale stato chiamati Mollecche, salgono anche alle mense più nobili».
Custodita per secoli dai pescatori di Chioggia l’arte viene svelata nel secondo dopoguerra alle famiglie nobili della Giudecca, per poi diffondersi in tutto il versante nord della laguna.