di Franco Migliorini
Demografia e insediamenti tra XX e XXI secolo
Nei primi 30 anni post unitari dell’800 la crescita demografica della Terraferma era stata di circa il 30%, passando da 16 300 a 20 500 ab nel 1901, in linea con le tendenze medie nazionali di crescita dei centri urbani dell’epoca.
Dal 1901 al 1936 Mestre raggiunge la cifra di 65 600 ab con una crescita di 45 000 ab sull’anno 1901, pari al 220%, In pratica triplicando la popolazione alla vigilia della seconda guerra. In questa crescita vengono però integrate le diverse municipalità esistenti in un territorio che negli anni ‘20 viene annesso al comune di Venezia secondo un indirizzo generalizzato dell’epoca, teso ad allargare i confini di molte città capoluogo di provincia per aumentare il controllo sulla mobilità della popolazione annettendola al centro principale.
A metà secolo (1951) gli abitanti di Mestre arrivano a 97 000 con una crescita del 473% sul 1901, in pratica in 50 anni, o due generazioni, Mestre giunge quasi a quintuplicare la popolazione di inizio secolo, ed è solo l’inizio. In realtà la crescita rispetto al 1936 è di 31 400 ab. pari ad un incremento del 48% nel quindicennio che include anche il periodo bellico.
Solo 25 anni dopo, nel 1975, Mestre raggiunge il picco storico di abitanti con 210 000 unità, ospitando il 57,6% di tutta la popolazione comunale (che nel 1975 era pari ai 364 500 ab) e solo pochi anni prima, nel 1968-70, aveva raggiunto il massimo storico di 367 000 unità. Rispetto al 1901 si tratta di un incremento del 976%. In pratica nell’arco di sole tre generazioni Mestre, con 210 000 ab, decuplica i suoi abitanti originari. Una cosa che nessuna città del Nord ha conosciuto nel medesimo periodo, e neppure nel resto d’ Italia.
In tre quarti di secolo un nucleo urbano di ridotte dimensioni, come altri centri minori nel Veneto del primo ‘900, è stato investito e travolto da un processo di inurbamento dovuto a tre principali fattori: la lunga crescita del grande polo industriale di Porto Marghera che in oltre mezzo secolo ha richiamato dirigenti e tecnici da tutta Italia; il massiccio esodo da Venezia per ragioni abitative che, nel trentennio 1951 – 1981 del secondo dopoguerra, è passata da 175 mila abitanti a 93 mila, con una perdita di 82 mila unità pari al 47%, tendenzialmente delle classi più giovani; l’inurbamento di una quota di lavoratori dell’industria dalla cintura suburbana.
La vicenda urbanistica
Soprattutto nel secondo dopoguerra la domanda insediativa dei primi due decenni 50’-‘70 ha assunto dimensioni che nessuno strumento urbanistico né gestione amministrativa sono riusciti, e poco anche ci hanno provato, a indirizzare dentro uno sviluppo urbano controllato.
Di questa vicenda si possono distinguere almeno quattro fasi.
Dal 1945 al 1959, una vera emergenza abitativa postbellica rafforzata dal modello di sviluppo industriale labor intensive del polo di base e dall’esodo dalla città insulare, che nella rincorsa alla domanda di residenze ha conosciuto ogni genere di espediente. Dalle compravendite di terreni rurali considerati edificabili perché a ridosso di qualunque asse viario anche rurale, al rilascio di licenze edilizie nel giro di 24 ore su progetti ciclostilati, fino ai veri tentativi di sviluppo in altezza nelle aree centrali da parte delle imprese edilizie più attrezzate. In sostanza un modello di urbanizzazione rural-urbana quasi spontaneo che ha segnato la nascita di un agglomerato insediativo tra le maglie di una rete infrastrutturale, stradale e ferroviaria, convergente sul ponte della Libertà e sul polo industriale. Il collo di bottiglia attraverso il quale avvengono ancor oggi le relazioni tra le due parti di città.
Il PRG voluto da Wladimiro Dorigo nel 1959, che avrebbe dovuto cominciare a mettere ordine, subì nel 1960-61 la famosa “moratoria”, cioè la decadenza dei vincoli di salvaguardia direttamente durante la permanenza al Ministero per deliberata volontà della giunta veneziana del tempo che voleva tenersi le “mani libere”.
Nelle more del piano il prefetto del tempo approvò altresì di imperio i due grandi comparti per insediamenti produttivi di via Torino e della Romea, una inesauribile riserva di aree e di metri cubi per molti decenni a venire.
Compromesso sul nascere in varie sue parti, il PRG del 1959 prevedeva comunque una forte densificazione nelle aree centrali con indici fondiari fino a 6mc/mq nelle zone tra la stazione FS e Piazza Ferretto – es. Corso del Popolo – , in realtà non diversamente da altri piani degli anni ’50, come tentativo di conferire un aspetto più urbano a quell’area insediativa che si sarebbe voluto assumesse l’aspetto di una città.
All’atto pratico si trattava di una risposta insediativa meno dispersiva di molte frange urbana, ma comunque sviluppata in assenza di servizi, a volte fagocitati proprio dalla stessa pressione della domanda di edilizia residenziale che continuava ad essere il motore dello sviluppo di Mestre.
Sul perché del deludente esito qualitativo dalla grande crescita novecentesca, e soprattutto della espansione postbellica, esistono due ragioni di fondo. Da un lato il ridotto peso spaziale del nucleo storico originario di Mestre rispetto alla dimensione della espansione novecentesca, non in grado di condizionare lo sviluppo morfologico di una crescita urbana divenuta demograficamente superiore di quasi dieci volte all’impianto originario. Dall’altro la inadeguatezza delle classi dirigenti locali che, nella rincorsa alla offerta residenziale quantitativa, non si erano poste, e in buona misura non hanno inteso porsi, il problema della qualità urbana risultante, fatta eccezione per alcuni esemplari esempi di città pubblica come Villaggio San Marco e in precedenza città giardino di Marghera.
Per altro, la sensibilità verso la tutela del patrimonio dei centri storici italiani si manifestò sul piano culturale solo nel corso degli anni ’50 e divenendo azione concreta soprattutto negli anni ’60 a partire dai centri delle maggiori città che, nella quasi totalità, recano ancor oggi i segni tangibili di almeno un decennio di incuria post bellica.
E’ così fino ai primi anni ’70, quando con l’esaurirsi della crescita demografica attorno al 1970 (si noti in piena sintonia con tutte le città settentrionali dove ovunque si manifestano, assieme all’esaurirsi della crescita demografica, i primi timidi segnali di suburbanizzazione), l’attenzione comincia a rivolgersi al sistema dei servizi, in larga misura assenti al di là di quelli essenziali quali la rete idrica, elettrica e telefonica, oltre che stradale.
E’ il momento in cui, a metà anni ’70, centrale diventa il tema del “fabbisogno arretrato” di servizi, e cioè, oltre a una compiuta rete fognaria, la intera rete scolastica dagli asili alle superiori, i servizi socio culturali di quartiere e per il tempo libero, e soprattutto il verde urbano. Quest’ultimo un concetto sconosciuto ai più che aveva, a pochi chilometri di distanza, uno dei migliori esempi di urbanistica veneta di centri urbani non capoluogo. Il comune di Mirano, dove la rete dei servizi aveva preso forma a partire proprio dal verde posto nel cuore della cittadina.
A partire dal 1975 il tema del fabbisogno arretrato diviene centrale assieme ad un forte impegno per la politica della casa reso possibile dalla parallela azione legislativa e finanziaria nazionale che dedica alla condizione urbana una forte attenzione e adeguate risorse.
Si tratta di una intera fase che si prolunga per almeno i due decenni successivi, fintantochè al centro non si pongono le nuove questioni. Il decremento demografico comunale assai più forte a Venezia che a Mestre, con relativa suburbanizzazione della popolazione in uscita verso le prime due cinture; il declino produttivo evidente a Porto Marghera e la conseguente contrazione occupazionale; la continua crescita del turismo che si avvia ad essere una componente strutturale sempre più importante dell’economia urbana. Su tutto una inesorabile tendenza all’invecchiamento della popolazione urbana col conseguente mutamento nella domanda di servizi dai giovani agli anziani.
L’ultimo ventennio degli anni 2000 consegna la realtà di un sistema urbano formato da due città interdipendenti sotto il profilo economico e occupazionale ma ben distinte sul piano della percezione dell’ambiente urbano direttamente fruito e delle relative rivendicazioni. Mestre non è più la periferia dormitorio concepita negli anni ’50 e ‘60, ma non è ancora compiutamente città, nel momento in cui prende corpo la realtà metropolitana di PaTreVe. E’ questa la reale emergenza di una organizzazione spontanea del territorio veneto centrale che si identifica per intensità di relazioni quotidiane, sia pur ripartite fra tre poli sostanzialmente tra loro complementari ma che operano politiche distinte.
Una realtà metropolitana di fatto, che la Regione si ostina caparbiamente a non riconoscere come un valore aggiunto del Veneto nella competizione europea tra sistemi evoluti nel nome di un chiaro concetto ispiratore di “divide et impera”, in tutta evidenza per timore di creare una sorta di competitor interno capace di costituire una polarità autonoma rispetto a quell’impianto sovraordinato regionale, concepito in modo indistintamente redistributivo che la regione ha da sempre perseguito fin dalla sua istituzione. Cinquanta anni fa.
All’atto pratico, per le peculiarità che presenta, il Comune di Venezia rappresenta invece per la Regione solo una utile opportunità nel momento in cui il Veneto si propone al mondo col brand “The land of Venice”. Da un lato in virtù della grande visibilità della città storica rispetto ad una regione che ne sfrutta il riflesso, dall’altro come primo Hub regionale, grazie al porto e all’ aeroporto che ne fanno il principale e più compiuto nodo intermodale del Nordest, connesso da terra con le reti ferroviaria e autostradale che vi convergono.
Tra progetto e mercato
Se la vicenda urbana di Mestre nel ‘900 è stata segnata dagli effetti della industrializzazione del polo costiero, la evoluzione degli ultimi decenni è invece all’insegna di un chiaro processo di deindustrializzazione. Non totale, ma tale da porre con evidenza il tema di una economia urbana integrativa.
Come in genere accade, la deindustrializzazione di una economia urbana sposta l’asse verso il settore dei servizi, ma, nel caso di Venezia, con una similitudine solo parziale con le altre città del Veneto centrale, anch’esse ormai deindustrializzate. Nelle altre città l’economia dei servizi urbani è cresciuta soprattutto in rapporto alla domanda dei rispettivi hinterland manifatturieri suburbani, mentre i servizi dell’economia veneziana si sono rivolti in prevalenza ad una diversa specializzazione, quella del settore turistico. Inizialmente considerata come una vera opportunità ma poi trasformatasi in una vera dipendenza.
Venezia, come nuova Fabbrica del Turismo, ha così finito col rappresentarsi, e con l’essere parimenti percepita, non più come luogo di vita ma come luogo di produzione di massa di servizi turistici sostenuti da basso livello di specializzazione e crescente numero di utenti serviti. L’overturismo come misura del successo. Con Venezia, Mestre mantiene, oggi più di ieri, un rapporto di forte interdipendenza che non è però compensato da una parallela diversa integrazione della città con l’economia metropolitana di cui fa comunque parte.
Le funzioni che Mestre offre all’area metropolitana di prossimità e alla intera regione sono principalmente legate all’indotto del Porto e dell’Aeroporto che, per la occupazione diretta, si proiettano sull’hinterland più prossimo e, per quella indiretta, vanno anche oltre i confini regionali, al servizio delle filiere internazionali in cui sono inseriti i flussi di merci e di persone che vi transitano.
E’ limitata la decisionalità che il Comune di Venezia esercita sugli indirizzi dell’economia portuale così come su quella aeroportuale. Sono infatti illuminanti le vicende della crocieristica legate al monopolio delle compagnie del settore turistico (CLIA) sulla VTP in Marittima, posseduta comunque al 50% dalla Regione, così come quelle della SAVE, società a maggioranza estera proprietaria dell’aeroporto. Il progetto di una seconda pista viene infatti concepito in rapporto di utilità reciproca con la Alta velocità ferroviaria in funzione di offerta al turismo di massa internazionale, con il preciso intento che la stazione sotterranea del Cappio di Tessera debba depotenziare il ruolo storicamente svolto dalle stazioni urbane di Mestre e di Santa Lucia proponendosi come base di approdo al territorio italiano per i flussi provenienti dall’Est europeo e soprattutto dal continente asiatico.
Infrastrutture e immobiliarismo
Il ruolo produttivo e infrastrutturale che Mestre svolge a livello regionale segna fortemente gli attuali processi di trasformazione del territorio urbano di tutta la terraferma. Al tempo stesso l’indotto immobiliare prodotto dalla infrastrutturazione pubblica diviene oggetto di disputa o di spartizione concordata tra i gruppi immobiliaristi locali che necessitano di una forte intermediazione politica per capitalizzare gli effetti della spesa pubblica in termini di benefici prodotti dagli investimenti in nuove infrastrutture. L’effetto indotto è costituito dai vantaggi di accresciuta accessibilità delle limitrofe aree per destinazioni ricettive, commerciali, congressuali e sportive che si vorrebbero promuovere. Una fattispecie pressochè esclusiva di servizi con cui si pensa di specializzare le funzioni metropolitane di Mestre.
Due in particolare le aree su cui si concentrano con forza gli interessi immobiliari associati alle nuove infrastrutture, entrambe disposte sull’arco di gronda, vero nuovo terreno di conquista del suolo mestrino per il suo affaccio sulla laguna. In pratica una quasi Venezia, ma vista da fuori.
Si tratta della radice di terraferma del Ponte translagunare e del quadrante di Tessera. Il primo concepito per lo scambio terra acqua. Il secondo invece per una nuova intermodalità aria-ferro in versione sovradimensionata nell’intento di aumentare la competitività del Marco Polo rispetto agli altri scali aerei italiani, con una specifica alleanza Tessera-Fiumicino Una visione fortemente aziendalista fondata sulla cattura e gestione dei flussi turistici.
Rientra in realtà in questa visione anche il nuovo distretto alberghiero attorno alla stazione di Mestre, incuneato a forza tra le maglie del nodo stradale ferroviario della stazione. Ancora una volta una quasi Venezia, questa volta però in virtù del facile accesso che propone la ferrovia.
E’ evidente come il disegno che si va compiendo sul territorio di Mestre sia legato essenzialmente alle nuove infrastrutture palesemente pensate per fare da traino alla valorizzazione immobiliare dei terreni limitrofi, e come il disegno stesso confidi nell’aumento della offerta turistica per attrarre investimenti di servizi direttamente o indirettamente legati all’industria internazionale di questo settore.
E’ di fatto la intangibilità fisica della città insulare che induce e costringe a concentrare le trasformazioni sulla terraferma, proprio a partire dalla fascia di gronda. Questa è l’area più prossima che si suppone libera da qualunque vincolo di trasformabilità, ma sulla quale Unesco postula esplicitamente la applicazione di un concetto di buffer zone, cioè di cuscinetto di rispetto paesaggistico e di respiro ambientale per il contenimento insediativo disposto attorno al bordo laguna.
Sulla radice del ponte tra San Giuliano e la prima zona industriale, così come sul quadrante di Tessera, si concentrano infatti le proposte di trasformazioni strategiche su cui va evolvendo una idea di città ispirata ai soli meccanismi di mercato.
Il ponte translagunare, con quattro corsie e altrettanti binari, rappresenta il passaggio obbligato per il 90% degli spostamenti terrestri di persone, di breve e lungo raggio, da e per Venezia. Un potenziale di domanda da sfruttare solo che la radice terrestre tra San Giuliano – prima zona venga messa in comunicazione diretta col flusso di transiti che quotidianamente la attraversano. A questo serve la complessa progettazione del nodo infrastrutturale destinato a realizzare la nuova e complessa intermodalità ferro-gomma-acqua per l’interscambio con Venezia.
L’inquinamento industriale dei suoli circostanti ha finora fatto da barriera alle trasformazioni per il suo elevato costo di bonifica, ma una convergenza organizzata di molteplici interessi politico-immobiliari locali ed esterni pare determinata a realizzare una adeguata capitalizzazione volumetrica che renda ampiamente sostenibili i costi. Con buoni margini di utile.
La suggestione proposta è quella di un vasto waterfront che associ il fronte canalizio industriale Nord a un fronte di bassi fondali barenosi di acque stagnanti lagunari (area Pili) in un nuovo complesso immobiliare denso di attività turistico –ricettivo-ricreativo-sportivo atto a comprendere anche attracchi crocieristici in una sorta di nuova City peri lagunare, dallo skyline ispirato alle esotiche espressioni di modernità tecnologica ispirate da altri continenti, direttamente prodotte dai petrodollari.
Una analoga offerta di un simile mix funzionale si vorrebbe realizzato anche nel quadrante di Tessera, sempre radicato su di una forma di intermodalità ancora più complessa della precedente, cioè aria-ferro- gomma-acqua, perseguita a costo di un vero azzardo ambientale come la stazione sotterranea della ferrovia veloce destinata ad attrarre sempre nuove masse di visitatori aviotrasportati.
La differenza tra le due iniziative di dei Pili-Prima zona e Tessera consiste nel fatto che la radice del ponte è concepita essenzialmente per l’accesso a Venezia, mentre quella di Tessera si proporrebbe come una nuova polarità urbana, in larga misura autosufficiente e svincolata da Mestre, in una ottica di polo di attrazione metropolitano destinato a funzioni convegnistiche, ricettive e di sport spettacolo integrate alla aerostazione.
In entrambi i casi due iniziative del tutto estranee alla città di Mestre, come due satelliti autonomi – brown field l’uno, green field l’altro – separati dalla città esistente dalla quale al massimo poter attrarre qualche funzione pregiata, purchè funzionale alle nuove forme di business immobiliare.
Declino urbano e scenario metropolitano
Nel quadro di PaTreVe, le tre città e le tre province che costituiscono la principale massa critica metropolitana del Veneto, una “metropoli implicita”, Venezia – città e provincia – rappresenta la componente in declino, o comunque quella economicamente meno dinamica.
Nell’arco temporale 2001 – 2019 la dinamica demografica evidenzia comportamenti divergenti delle tre città. Mentre Padova (+ 2,5%) e Treviso (+ 6%) indicano trend percentuali di crescita, Venezia (- 5%) mostra un trend significativamente negativo.
Al tempo stesso, le tre province confermano – nell’anno che precede la pandemia – la diversità delle dinamiche in atto all’interno delle rispettive circoscrizioni territoriali. Padova cresce del 10%, Treviso del 11%, mentre Venezia cresce solo del 4,5%. Tutti tre i territori provinciali evidenziano in ogni caso una crescita demografica in cui si riflettono forme di diffusione economica, ma, nel caso di Venezia, con un tasso meno che dimezzato rispetto alle altre.
La decrescita demografica del Comune di Venezia rispetto a Padova e Treviso indica infatti come la città risulti meno attrattiva sia in termini di offerta abitativa che di lavoro. Segno inequivocabile di come l’economia turistica tenda a svuotare di abitanti e di relativi redditi quelle località in cui prende il sopravvento sulla compagine socio economica coinvolta, e sull’uso del relativo patrimonio abitativo, mentre l’economia dei servizi resi ad hinterland industriali come quelli di Padova e Treviso intercetti assai più le scelte abitative legate a forme crescita più strutturata, durevole e permanente così come alla offerta di lavoro qualificato.
Questo serve a fissare con chiarezza come tra economia e demografia esista un preciso legame destinato a incidere sulla dinamica insediativa del territorio. Tenuto presente che in termini di consumo di suolo il Veneto evidenzi comunque un primato nazionale, ma come questo non si rifletta in un primato economico assoluto, quanto piuttosto in uno sviluppo ad intenso impatto insediativo.
Sulla evoluzione demografica incide molto la politica abitativa attuata dai maggiori comuni. A Venezia l’esodo ha una duplice matrice: da un lato la pressione esercitata dal turismo sul patrimonio residenziale, in città storica come a Mestre, dall’altro una offerta abitativa di tipo sociale inerte di fronte allo svuotamento del patrimonio pubblico e al suo progressivo degrado. Quasi un programma. Dal canto suo l’offerta privata si misura con la obsolescenza del patrimonio novecentesco di Mestre, soprattutto di quello del secondo dopoguerra, che evidenzia standard inadeguati alle esigenze della odierna domanda solvibile. Accade così che si alimenti l’esodo suburbano mentre lo stock abitativo urbano si arricchisce di case vuote per il turismo e quello suburbano di prima e seconda cintura incida sul consumo di suoli per tipologie a prevalente bassa densità.
A nulla servono isolati episodi di iniziative edilizie, tanto eclatanti quanto simboliche, come edifici a torre che non rappresentano alcuna inversione di tendenza verso un diverso futuro socio economico e urbanistico ma solo un esplicito intento di valorizzazione immobiliare dall’incerto destino e senza alcuna visione di città altra da un territorio di operazioni immobiliari.
La politica abitativa affidata alle sole dinamiche di mercato accompagna e sostiene il declino demografico della intera città che qualcuno nel frattempo si industria a rinominare introducendo il concetto di “Grande Venezia”. Ossia un territorio assai più vasto disposto tutto attorno al comune capoluogo che del nucleo storico insulare, e della sua espansione in terraferma, trattiene il nome mentre ne rilascia la popolazione in una progressiva accettazione del ruolo d città storica come museo urbano destinato al solo consumo turistico, e di Mestre come retroterra residenziale.
Oltre l’economia immobiliare
Il declino industriale, parziale ma non totale, degli ultimi decenni, compensato dalla parallela travolgente crescita turistica ha prodotto importanti ricadute spaziali sull’uso del suolo urbano di entrambe le città. Nel confermarne la interdipendenza economica di Mestre e Venezia, ha accentuato il ruolo esercitato dall’economia immobiliare a partire dalla pressione del turismo sui fattori di rendita del patrimonio storico insulare, convertito a ricettività alberghiera ed extra alberghiera, e da una crescita del pendolarismo intracomunale, per studio lavoro e turismo, che la città insulare, nel suo ruolo ormai esplicito di Fabbrica del turismo urbano, riverbera anche su Mestre con una offerta alberghiera popolare consegnata nelle mani dell’industria turistica internazionale.
L’ impatto della crescita dei flussi turistici lungo gli assi della mobilità urbana degli sposta menti giornalieri verso Venezia e in Venezia ha prodotto forme di crescente congestione dei terminal del trasporto urbano, con aumento della rendita differenziale legata alle attività commerciali e ricettive dei tessuti edilizi meglio posizionati rispetto alla circolazione dei flussi in città storica.
Questo ha finito per conferire alla rendita immobiliare il ruolo trainante dell’economia urbana, con uno specifico impatto anche su Mestre dove vengono esaltati al massimo i valori di prossimità alle infrastrutture di trasporto per la città insulare.
Questo vale in particolare per tutto il distretto urbano ai due lati della stazione di Mestre, destinati al servizio della ricettività turistica industriale a basso costo, e sulla testa di ponte di San Giuliano su cui ora si dirige con forza la pressione per la trasformazione ad uso turistico ricreativo dell’intero water front, quello compreso tra i 50 ettari dei Pili e il canale industriale Nord.
E’ questa la spirale in cui la vita urbana dell’ultimo quinquennio è stata trascinata in un travolgente processo di cambi d’uso del patrimonio storico insulare e di nuovi volumi tutti concentrati attorno alla congiungente stradale e ferroviaria di Mestre con Venezia.
Si tratta di un disegno lucido per attrarre la finanza, locale e internazionale, ad investire nello sfruttamento industriale del turismo veneziano come forma dominante dell’attuale economia urbana che si è affermata in questa fase storica, distorcendo così la traiettoria dello sviluppo urbano moderno di una intera città, capoluogo di regione.
Una visione che tende a schiacciare la dinamica imprenditoriale veneziana sul modello immobiliare del turismo costiero Alto Adriatico che la circonda, in un ruolo di reciprocità tra il turismo balneare e la diversificazione della offerta ricreativa proposta con la visita urbana. Qualcosa che conferisce implicitamente all’intero comune di Venezia il ruolo di città della ricreazione e del tempo libero nell’ambito di PaTreVe, dando luogo ad una economia con forte dipendenza dalla domanda esterna, quella turistica, e deprimendo l’offerta di lavoro di qualità per il massiccio impiego di mano d’opera non qualificata e a basso costo, che inglobano quei sistemi organizzativi che presiedono a questo tipo di reclutamento.
Sugli effetti che la pandemia ha prodotto sulla dipendenza della economia urbana dalla domanda esterna lo scenario è in piena evoluzione.
Con l’attenzione tutta rivolta agli investimenti per la domanda esterna viene così meno l’interesse e l’attenzione per la domanda locale di servizi ai residenti. Quelli che specificamente riguardano le aree urbane più rappresentative per la comunità di Mestre, come il centro città con le sue funzioni simboliche, culturali e rappresentative. Impoverito per di più dalle nuove forme di concorrenza della grande distribuzione dei centri commerciali periferici e dalle più recenti catene del commercio on line che svuotano ulteriormente la attrattività di un cuore urbano, quello faticosamente costruito negli ultimi decenni.
Economia urbana e idea di città
Come la crescita urbana di Mestre nel ‘900 è legata allo sviluppo del polo industriale costiero e all’esodo da Venezia, così col il declino del polo diminuisce la domanda di lavoro industriale mentre si rafforza il legame col settore turistico veneziano come settore in espansione. E con esso cresce la interdipendenza economica delle due città in assenza di un diverso sviluppo autonomo di Mestre nel settore dei servizi.
La marcata impronta immobiliare che la crescita del turismo di massa imprime allo sviluppo urbano finisce con attrarre risorse rincorrendo a senso unico la domanda esuberante sottraendo l’attenzione dagli altri settori dell’economia locale.
Ogni amministrazione è infatti chiamata a interagire con le tendenze dell’economia di mercato a livello urbano disponendo stimoli, restrizioni e vincoli in funzione di quella che si può definire come l’idea di città che si intende perseguire per corrispondere alle aspettative degli abitanti.
La politica della monocultura turistica, che la attuale amministrazione veneziana persegue nelle forme specifiche della crescita ricettiva e della promozione crocieristica, è un chiaro esempio di esasperato assoggettamento ad una specifica fattispecie dell’economia di mercato, ma è ben lungi dall’essere l’unica opzione possibile e non necessariamente quella migliore. E’ invece espressione di come una strategia economica si dimostri funzionale principalmente alla riproduzione del consenso politico manipolando e diffondendo visioni di breve periodo.
Al contrario l’economia veneziana è storicamente assai diversificata per non soccombere alla decadente dittatura dell’iperturismo colonizzato da interessi esterni e pilotato dalle lobby locali. E sono almeno cinque i settori fondamentali con cui l’economia veneziana è oggi chiamata a misurarsi con le innovazioni dell’epoca attuale per garantire alla città un ruolo attivo e non subalterno alle forme distorsive di colonizzazione economica.
Il settore della produzione industriale di base, che oggi è posta di fronte ai processi innovativi di reindustrializzazione tecnologicamente avanzata nel campo delle energie pulite come anche dei processi di reshoring di imprese intenzionate a capovolgere la dipendenza da produzioni estere e a riposizionarsi nell’ambito di una nuova divisione internazionale del lavoro a forte integrazione europea. E’ con questi processi che il polo di Marghera è chiamato a interagire in modo innovativo grazie alla sua accessibilità nautica e alla condizione di operare nel contesto manifatturiero e logistico del Nordest cui è geneticamente legato. In una prospettiva di questo genere serve che un organismo dedicato come una Agenzia di promozione operi sul campo per attrarre e coordinare il necessario processo di potenziamento e rinnovo della base produttiva.
Il Porto commerciale, che rappresentala la spina dorsale della portualità veneziana, è una componente costitutiva della piattaforma logistica territoriale del quadrante Alto Adriatico e Sud Europeo in cui si colloca. Il porto di Venezia funge da ponte tra il Mediterraneo e l’Europa Centrale, ed è interessato agli intensi flussi di integrazione produttiva via terra con l’Est Europeo. Questo si lega ad una migliore organizzazione della mobilità merci alternativa al tutto strada attuale, quello che oggi satura l’asse transpadano della A4 col grande frazionamento dei carichi su gomma dovuto alla dispersione delle origini e destinazioni delle merci in transito. Il tema attuale è la promozione di una logistica di corridoio integrata tra strada e ferro. L’aver schiacciato il tema portuale sulla questione crocieristica, nella fattispecie del gigantismo perseguito dall’industria navale in città, rappresenta una distorsione del più generale tema della portualità lagunare rispetto agli effetti congiunti della riorganizzazione del mercato marittimo internazionale e dell’impatto che l’innalzamento dei livelli marini ha sul futuro portualità veneziana. L’assenza di un PRG portuale aggiornato evidenzia la persistente assenza di strategia prodotta dalle rendite in essere.
Il settore dell’artigianato produttivo, che rappresenta il radicamento delle tradizioni industriali della Serenissima, nelle forme di uno storico saper fare, nell’attualità conserva e ripropone il valore aggiunto della sua peculiare identità. Dalla cantieristica al vetro, dai tessuti alla stampa di qualità, dalle pietre e al ferro per la manutenzione del patrimonio edilizio fino alla produzione degli innovativi allestimenti espositivi della Biennale. Questo tessuto di PMI costituisce una attività permanente, ancorchè poco nota, ma detentrice di conoscenze tecnologiche e materiali aggiornate che si misurano costantemente con una domanda internazionale di servizi qualificati resi ad una attività di grande prestigio come la Biennale. Si tratta di attività che operano sull’intero territorio comunale e al tempo stesso rappresentano un nucleo professionale esteso e organizzato che costituisce un valore aggiunto.
L’economia della cultura è il settore costituito dall’insieme di istituzioni culturali esistenti, a partire da musei, archivi e biblioteche, fondazioni private, università e scuole superiori con la stessa Biennale. Rappresentano un complesso di attività profondamente radicato nel tessuto urbano della città storica. Si tratta di un campo che abbraccia espressioni artistiche e creative fortemente integrate a livello internazionale con una stabile base sociale di addetti specializzati residenti in tutta la città di acqua e di terra. La prevalente connotazione umanistica di queste attività, se tiene alta la forza identitaria dell’eredità storica veneziana, non coglie appieno tutti i contenuti innovativi che le nuove tecnologie consentono di sviluppare in rapporto alla elaborazione e divulgazione digitale dello straordinario patrimonio di cui la città dispone. Non si tratta di applicare le tecnologie digitali solo alla conservazione ma soprattutto di valorizzare il patrimonio come strumento di formazione professionale attraverso le nuove tecnologie. Queste attività vanno pensate come direttamente associate a progetti divulgativi connessi alle piattaforme distributive di prodotti in rete, col deliberato intento di promuovere ricadute commerciali permanenti. Come in passato Venezia è stata sede di produzioni cinematografiche permanenti oggi va riproposta come luogo di produzione industriale di contenuti creativi per entrare con una identità da protagonista nel mercato internazionale del digitale. E’ questo un modo concreto di introdurre una produzione immateriale che raggiunga quel mercato di massa che grazie al brand Venezia interpreti la domanda mondiale senza che la domanda si riversi su Venezia come accade col turismo massificato. All’atto pratico un passaggio dall’immobiliare all’immateriale che aumenti il valore aggiunto per la città.
La sfida climatica che stiamo vivendo fa di Venezia è un campo in cui la città si trova in prima linea. Non solo come simbolo della storica convivenza con l’ambiente lagunare ma come luogo in cui si gioca concretamente la risposta di una città all’innalzamento dei livelli marini. Una condizione che accomuna molte realtà mondiali e offre la opportunità di porre a disposizione della comunità internazionale lo specifico know how scientifico cumulato dalla città. Lo sviluppo del settore di studi ambientali va fatto evolvere dalla attuale frantumata condizione di eccezionalità a quella di una nuova normalità all’interno di un circuito integrato a livello mondiale di scambi e di esperienze in cui il meglio delle conoscenze e delle tecnologie venga condiviso e messo a disposizione di tutti.
Il settore turistico. Ovvio che è e resta una attività storicamente radicata nella vita della città. Una attività importante che deve convivere con le altre attività urbane come accade nelle più note città d’arte, senza fagocitare gli spazi e schiacciare i destini di una intera popolazione su di una monocultura desertificante Questa colpisce soprattutto le giovani generazioni, come un settore a basso valore aggiunto e elevato impatto ambientale. La gestione del turismo va pensata come una politica consapevole basata sulla programmazione intelligente e sull’uso consapevole della storica risorsa urbana.
Un progetto oltre la gestione
La deviazione della traiettoria urbana che oggi si impone a entrambe le città, a Mestre come a Venezia, non è materia da abbandonare alla dinamica delle forze di mercato. Queste operano per obbiettivi settoriali e risultati di breve periodo, incuranti delle conseguenze a lungo termine perché saranno altri a doversene occupare.
La pura filosofia aziendale che domina l’amministrazione della città esistente nella rincorsa alle emergenze, vere e presunte, confligge con l’idea di città come progetto di comunità di interessi e di intenti. Una città non può riconoscersi in una esasperata monocultura economica ma deve perseguire una pluralità di opportunità e di forme di sviluppo gestendo le ricadute spaziali delle trasformazioni dentro una visione metropolitana in cui la città non sia oggetto di consumo ma soggetto di strategie e portatrice di progetti sostenibili di lungo periodo.
Al giorno d’oggi sia le città che i processi produttivi aziendali si devono confrontare con gli scenari nuovi dell’economia della conoscenza e dell’informazione per aumentare l’efficacia delle politiche di sviluppo e di consapevole uso dell’ambiente urbano. Questa è la condizione dominante di un’epoca attraversata da profondi cambiamenti che vanno orientati verso un progetto, non verso un qualsivoglia risultato che appaghi alcuni protagonisti di turno.
La dialettica tra città storica e città moderna, dentro la cornice ambientale della laguna, è una ricchezza che offre una qualità distintiva e unica alla intera comunità veneziana. Questo rappresenta un valore non trattabile e non monetizzabile con misure avventate e predatorie di una risorsa comune sul cui mantenimento si deve invece elevare la capacità di governo delle molte amministrazioni coinvolte.
Una laguna posta al centro di un contesto metropolitano è un valore aggiunto per l’intero sistema e va messa al sicuro dalla pressione antropica ma non per questo sottratta alla fruizione. La sostenibilità della fruizione antropica è il frutto di politiche consapevoli e non di iniziative circoscritte ed estemporanee. Il territorio che circonda la laguna, a partire dalla gronda, è direttamente collegato all’ambiente lagunare attraverso i suoi corsi d’acqua e alla trama degli spazi aperti inedificati che compensano la pressione antropica del sistema insediativo.
L’intera terraferma veneziana e il suo più diretto retroterra spaziale metropolitano vanno proposti come la cornice del sistema lagunare con una politica di valorizzazione degli spazi aperti lungo i tracciati fluviali e di ripristino e valorizzazione della trama storica che collega le fortificazioni. Questo patrimonio va offerto come presidio storico e naturalistico, una sorta di trama sottratta alla pressione insediativa e offerta alla fruizione ambientale e al tempo libero metropolitano, una rete di luoghi e di percorsi “verdi e protetti” come parte di un sistema unitario con la laguna per il tramite della sua gronda.
Nella permanente assenza di qualsivoglia strategia di organizzazione metropolitana della città di Venezia questo deve rappresentare un preciso obbiettivo con cui estendere ad una più vasta comunità quei valori paesaggistici e ambientali che costituiscono la cornice della laguna di Venezia.