Del buon uso dell’immigrazione

RICERCHE

Del buon uso dell’immigrazione

di Monique Veaute*

Per mettere la capitale al riparo dagli sconvolgimenti provocati nell’impero dalle invasioni barbariche e mettere se stesso al riparo dall’usurpazione da parte dei generali avidi di potere, l’imperatore cristiano Costantino si trasferì in Oriente, nella futura Istambul. Mentre in Gallia e in Germania i governatori, appoggiandosi alle legioni romane e alle truppe ausiliarie autoctone, tentavano di amministrare le loro province e facevano il possibile per mantenere l’ordine nelle zone rurali e boschive, a Costantinopoli ci si occupava di quello che si credeva essenziale, ossia la lotta contro l’unico nemico riconosciuto dell’Impero romano: la Persia. L’universo iranico era effettivamente, già a quei tempi, la frontiera per eccellenza, il baluardo contro cui si infrangevano tutte le imprese belliche dei Romani, che mobilitavano invano le loro truppe migliori. E’ ad Antiochia in Siria che Valente, allora imperatore d’Oriente, aveva radunato per un nuovo assalto i propri consiglieri, eunuchi, generali e fanti scelti della guardia imperiale.

A circa tremila chilometri di distanza, in quella che si sarebbe chiamata l’Europa Centrale, la situazione era molto più complessa. Ci si preoccupava poco dei grandi disegni i della Storia e ci si accontentava di sopravvivere in regioni poco ospitali. I coloni romani avevano adottato un atteggiamento pragmatico: dopo che i saccheggiatori erano stati allontanati con la loro parte di argento, prodotti agricoli, oltre che di manodopera e di robusti giovanotti per l’esercito, non chiedevano altro che di convivere di comune accordo con gli indigeni. Questi ultimi d’altronde era suddivisi in miriadi di tribù, che a loro volta generavano ancor più numerosi clan e famiglie, che rappresentavano in campo religioso, o per quanto riguarda l’uso delle lingue o le consuetudini di lavoro o artistiche, una gamma infinita di variabili. La norma nei rapporti tra nomadi e stanziali era quindi il contratto o la trattativa più che lo scontro, sebbene non potesse mai escludere del tutto il rischio che i primi compissero delle razzie ai danni dei secondi.

E’ altrettanto sicuro che, contrariamente a certi eccessi di immaginazione, il legionario rasato di fresco o l’edile drappeggiato nella toga non dovessero tener testa a dei Goti biascicanti, affamati o coperti con pelli di animali. Molti Barbari erano cristiani, raffinati e molto più esperti nell’uso del greco o del latino dei contadini mandati da Roma a coltivare le terre loro assegnate.  In 9 Agosto 37. Il giorno dei Barbari (Laterza, Roma-Bari 2005) Alessandro Barbero ce lo dice con parole d’oggi: “L’Impero romano era già di per sé un impero multietnico, un crogiuolo di lingue, razze, religioni ed era perfettamente in grado di assorbire un’immigrazione massiccia senza esserne per altro destabilizzato”.

Perché, alla soglia del IV secolo, un improvviso fragore ha tuonato scotendo questa parvenza di equilibrio e i Goti, in fuga dalla culla dei loro popoli, si sono ammassati alle frontiere dell’Impero sulle sponda sinistra del Danubio? Sono state avanzate diversi ipotesi sul verificarsi di questo vero  e proprio terremoto. Alcuni lo imputarono alla decadenza, sotto varie forme, dell’Impero romano e a un horror vacui, a livello sia demografico che di risorse naturali, tale da risucchiare ed essere prontamente colmato dalle invasioni barbariche. Si accusano spesso le variazioni climatiche, certamente all’origine non del “riscaldamento” che oggi è all’ordine del giorno, ma di un allargamento delle zone aride che stravolse la geografia umana dell’Asia centrale e della Siberia, con ripercussioni fino al cuore dell’Europa. O ancora più probabilmente, fu il movimento migratorio degli Unni provenienti dai deserti freddi dell’Estremo Oriente che, scagliandosi sulle retrovie dei popoli barbari, li spense a loro volta fuggire dritto davanti a sé, fino a fermarsi davanti al limes romano.

Comunque sia, bloccati a decine di migliaia al posto di confine all’imbocco di un unico ponte diroccato, i Goti tesero le braccia verso l’altra sponda del fiume, supplicanti e minacciosi insieme, come è speso chi chiede asilo. Quanto ai responsabili locali, che pure cercavano di attirare l’attenzione del sovrano tutto preso da preparativi della sua guerra, erano combattuti tra la manna di questa manodopera servile e militare che si offriva abbondante, l’insperata fortuna delle mazzette pretese dai passatori, la torta degli affari procacciati dai trafficanti di viveri al mercato nero e il terrore di venire sopraffatti – con gli occhi sbarrati, come sui mosaici romani o nei balbuzienti esempi di scultura cristiana – da quella moltitudine sui cui carri viaggiavano certamente anche molti guerrieri. Per farla breve, i Romani, adottando un comportamento più tardi condiviso da tanti altri paesi benestanti, esitarono a schiudere le loro frontiere, spingendo all’esasperazione questa enorme massa di gente tratta come bestie, condannata ad un insuperabile attesa. Senza ordini né mezzi, i funzionari alle frontiere non sapevano se dovevano accogliere – per sfruttarli sino all’osso –oppure se dovevano semplicemente respingere – il che equivaleva a massacrarli – la folla di Goti che tentavano l’avanzata ad ogni costo. Non si trattava ormai di stabilire un “soglia di tolleranza”, ma di tentare di stare a galla in un flusso di umanità che sembrava impossibile arginare.

Per amore di sintesi diciamo che la forza della disperazione dei guerrieri barbara sommata agli indugi dell’imperatore ritornato precipitosamente dalla Siria e agli errori strategici commessi dai suoi generali, non tardarono a far pendere la bilancia a favore dei primi: dopo la battaglia presso Ad Saciles e in misura anche maggiore, il 9 agosto 378, quella di Adrianopoli, i giochi erano fatti. L’imperatore Valente fu trucidato negli scontri, le legioni fior fiore dell’esercito romano, furono fatte a pezzi dalla cavalleria barbara e solo le città fortificate, oltre che qualche grande città, sfuggirono alla conquista dei Goti, ormai in marcia verso Roma, che il loro capo Alarico avrebbe saccheggiato nel 410. E per finire, nel 476, un secolo esatto dopo i primi scossoni, si chiuse il sipario quando il re barbaro Odoacre deposto Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore d’Occidente.

Si era toccato il fondo, per lo meno di una storia manichea e reazionaria che ancora oggi ha qualche sostenitore: l’Impero stava per disintegrarsi sotto colpe dei Goti e le popolazioni civilizzate, vittime della loro stessa mansuetudine – perché non li abbiamo sterminati fin dall’inizio tutti “quei bruti”, quando era ancora possibile! – sarebbero state sbaragliate dalla bestialità barbarica. Un racconto così pieno di odio e di terrore nei confronti dell’altro, se confermato dai fatti, avrebbe facilitato enormemente il compito del curatore della nostra Mostra “Roma e i Barbari”, al quale non sarebbe rimasto che esporre qualche pozza di sangue seccato insieme alle ossa e alle ceneri del genocidio!

Come chiunque certamente avrà capito, le cose non sono affatto andate così. Al contrario, ben lungi   dall’essere “la fine di tutto”, questo scossone rappresenta il punto di partenza di una nuova storia e questa secolare immigrazione, sebbene all’epoca mal gestita, ha costituito un elemento essenziale della ricchezza dell’Occidente. Un Occidente ormai lasciato alla mercè di se stesso e dei “suoi” Barbari da un Impero d’Oriente che tentava di sopravvivere, più lontano che mai. Me è bastato che riecheggiasse una sola parola, una parola mai pronunciata prima e che avrebbe avuto più conseguenze in Europa di tutte le conquiste belliche: “integrazione”, la promessa di un mondo nuovo.

E’ questa mescolanza e ai primi esitanti incontri tra diverse colture ai confini dell’antico Impero che la mostra di Palazzo Grassi ci invita ad assistere.

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* già , direttore di Palazzo Grassi.

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L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale.

— Blaise Pascal, Pensieri, 139

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