La laguna è vita: la pesca tradizionale

RICERCHE

La laguna è vita: la pesca tradizionale*

di Pino Sartori

Numerose testimonianze raccolte da persone anziane che hanno vissuto la transizione temporale, sociale ed economica dall’anteguerra al periodo postbellico del grande sviluppo economico ci confermano che i legami con la laguna e le barene antistanti a Campalto, Tessera, fino alla palude del Montiron erano molto intensi ed estesi non solo alle comunità che si affacciavano direttamente sugli argini lagunari, ma anche con ampi strati di popolazione contadina o operaia che residevano entro una fascia della terraferma che arrivava fino a Gaggio, Marcon, Dese, ecc..

Le ragioni di questi legami erano fondate sulle necessità di sussistenza e sopravvivenza, per le poche risorse conseguenti alle capacità di produrre reddito con la sola manovalanza o mezzadria.

L’accesso agli spazi lagunari con semplici strumenti di pesca o di raccolta trasportabili da casa e senza dover ricorrere ad imbarcazioni era una certezza per assicurare un pasto decente magari ad una famiglia numerosa com’era spesso in quegli anni.

La guerra di una sedicenne

Il racconto di Emma Cester Pellizzer, che attraversa il periodo bellico, è una testimonianza illuminante della condizione di vita di molte ragazze che ancor giovani dovevano assumere la responsabilità di “mandare avanti” una famiglia. E’ soprattutto un esempio di come la popolazione di questo territorio è riuscita, con sacrifici e tenacia, a superare le tristi condizioni di vita  di una volta ricorrendo alla laguna.

«Sono nata nel 1924 a Favaro, in mezzo alla campagna; dopo, quando avevo 9-10 anni sono andata ad abitare vicino alla Torre della Chiesa, in via Pezzana, in una casa in mezzo ai campi, vicino al Forte, sulla strada che da via Pezzana porta a Dese. La casa era di Franchin, mio padre era operaio, andava a governare le bestie, lavorava nella stalla della fattoria grande, all’inizio di via Pezzana; la casetta era abbastanza in ordine, abitavamo da soli, senza altre famiglie. Ci siamo stati cinque sei anni, poi siamo andati ad abitare in via del Cristo, mio padre era sempre operaio, ma andava a lavorare al Forte Marghera.

In via del Cristo abitavamo in una baracca; Franchin ci aveva buttati fuori di casa, e allora ci hanno messo una baracca proprio dove ora c’è la stazione dell’aeroporto. Non avevamo niente, la baracca era impostata tra la terra e il fosso, era una baracca in legno, tutta rotta, che dopo ci è toccato di puntarla coi travi, che franava.

Eravamo dodici fratelli, senza la mamma, morta dando alla luce l’ultima bambina; è morta a 41 anni, appena andati ad abitare nella baracca; “mì gavevo sedici anni e così dopo go fato tuto mi”; mio papà a 59 anni è morto anche lui, per l’asma contratta quando lavorava nella stalla.

Per ‘ndare avanti…non ve digo cossa: go patio fame fredo, mi me tocava andar a pescar in laguna, queo che pescavo – me tolevo la bicicleta – portavo a Mestre al merca’, vendivo queo che gavevo pesca’  e con queo vivevimo”. Avevo 17 – 18 anni, era proprio durante la guerra, i miei fratelli più grandi che potevano lavorare, erano invece tutti e tre “via a militar, e mi de dodese gero a casa mi sola, dopo de mi ne gera otto”, la più piccola aveva appena 40 giorni, le altre un anno e mezzo, due, tre, quattro anni e via.

Durante la guerra, “ai fradei tocò molar la scuola parchè non ve gera da magnar e allora andavano nelle famiglie dei contadini a servir, a lavorar”.

I bombardamenti: mi ricordo che c’è stato un bombardamento per sbaglio “i credeva de bonbardar la strada de Venezia, o per scaricar queo che gaveva, invese i ga scarica’ in laguna; o voleva – parchè ve gera un forte – abater queo, o voleva scaricar ste bonbe.. Mi gero a pescar… sa com’è in laguna che ve xe a tera tenera.., che gavemo perso tuto – che gavemo ciapà tanta paura che me vien ancor agìtassion … Sprissi de aqua, … de tera… ”.

Era nel ’44; “adesso me fà piaser parlar, non xe bei ricordi, però te fa una certa agitassion…”.

Si viveva con la roba della pesca: con la barca partivo da dove ora c’è l’aeroporto, in 4-5 persone per barca “e andavimo via, mi vogando, vìcino a Montiron, a pescar su a riva del canal, a pescar caparossoli”; e adesso che capisco un po’ di più di quel periodo là, “che se gavessi un fio che gavesse fato tutto queo che go fato mi, me farìa morir per a paura; con una ganba gerimo su la riva del canal, con quest’altra ganba non te sentivi che il vòdo, pescavo con le mani; i caparozzoli erano trenta centimetri soto el fondo”.

La famiglia andava avanti con il ricavato dalla pesca; “co queo che ciapavo dalla vendita de la pesca, quando tornavo indrìo ciapavo el pan, el late, a Tessera da Galliano, vicino alla Torre: aveva un’osteria e in più anche la bottega del casuin; si trovava dove ora c’è la trattoria. Galliano gera un papà; era un nostro benefattore, perché aiutava tutti se poteva aiutare, soprattutto le famiglie bisognose. Gera un compagno, anche durante il fascismo”.

Oltre lui c’era Nello Dotta, un meccanico di Tessera, che aggiustava le biciclette, ma era così di bontà, bravo, umano, quando si aveva bisogno bastava andar da lui… Galliano ci ha aiutato tanto.

Delle volte “rivava sera che non ve gera niente, se andava in prestìto dea negorsa e andavimo sull’Oselin, visino dove abitavamo, e prendevamo i schìeti e ganbereti, in do minuti; poi li facevamo fritti”.

A volte per far la polenta non c’era la legna; i fratelli più piccoli andavano a legna in barena o, di là del fosso, “i andava a fregar la legna”.

Alla sera si mangiava poco, “do o tre fighetti, la succa col late, un vovo sbattuto per sette; di poenta ne gavemo magnà tanta, che adesso … ! Magnavimo un po’ de tuto”, nei campi prendevamo le “pestenaie”, una specie di carota selvatica, i nespoli.. Per fortuna siamo stati bene in salute.

Quando i fratelli sono tornati dalla guerra sono andati a lavorare a Porto Marghera; “dopo se comincià a viver da cristiani” ». (Emma Cester Pellizzer)

Guglielmo Ciardi. Pescatore in barena, 1870 (dal Catalogo delle opere di Guglielmo Ciardi. Regione Veneto - Antiga Edizioni)

Guglielmo Ciardi. Pescatore in barena, 1870 (dal Catalogo delle opere di Guglielmo Ciardi. Regione Veneto – Antiga Edizioni)

Cape e moéche

Il successivo racconto della signora Cesira Cavallari Catalano indica in quale modo la costruzione dell’aeroporto modificò il rapporto che per secoli era esistito tra popolazione e l’ambiente laguna.

«Hanno trasformato l’ambiente naturale di Favaro quando hanno costruito l’aeroporto: hanno rovinato le strade, la pesca è diventata più difficoltosa. Per andare a pesca una volta bisognava attraversare l’Osellino con la barca, pagando 5 centesimi. La barca era di Semenzato, un anziano. Tutti lavoravano i campi e andavano a pesca per loro stessi. Dei pescatori venivano a pescare da Marcon. Usavano la “negorsa” era costituita da un manico lungo con la rete all’estremità. Una rete più piccola, il “sucolo”. serviva per mettere dentro il pesce. Mio zio pescava per sé, spesso pescava tanto pesce, ma ci voleva tanto olio per friggerlo e non ce n’era; allora si distribuiva il pesce agli amici. Dopo la costruzione dell’aeroporto hanno chiuso il canale Osellino in fianco alle nuove costruzioni, così è stato tolto il passaggio e non c’era più modo di andare in laguna. Bisognava andare più avanti, alle foci del Dese o al canale S. Maria o alla palude di Cona. Nelle terre dell’Azienda del conte Marcello montavamo in barca e da lì si prendeva la fossa storta e si usciva in laguna. In quel punto si andava col rastrello “a cape e moèche”, con la “negorsa” per i passarini per far “saor”, per i “gò” per far risotto”. La fiocina si è usata più tardi. Col cestino sotto braccio andavo a pescare le cappe che si mangiavano crude con la polenta. Da Favaro si arrivava a piedi fino a dove ora c’è l’aeroporto o al Passo Campalto. L’acqua era pulita. Con un paio di pantaloni si entrava nell’acqua e si prendevano le cappe che si trovavano dove c’erano le foglioline. Avevo un cestino anche per pulire le cappe. Una volta alcuni uomini sono andati a pescare con un pescatore credendo di trovare passarini e go’, invece vicino a un cumulo di sassi hanno visto guizzare i bisati, le anguille. Con la fiocina ne hanno pescate in quantità, le hanno pestate sui sassi. Hanno pescato tante anguille grosse e la più grossa è stata offerta al dottor Bazzarin. Dopo la costruzione dell’aeroporto, il pesce non si è riversato più in laguna. Tanti sassi grandi erano stati buttati nell’acqua, sono state fatte delle basi riconoscibili dall’alto per orientare gli aerei. L’inaugurazione dell’aeroporto con la presenza del Patriarca Urbani è avvenuta nel 1959. Ricordo che la barca che di solito ci traghettava è stata messa davanti all’aeroporto, per mettere in evidenza i mezzi di cui una volta potevamo disporre e la semplicità, la povertà e la felicità della vita di allora». (Cesira Cavallari Catalano).

Guglielmo Ciardi "Pescatore in laguna" olio su tela cm 47,5 x 82,5 (per gentile concessione della Fondazione Cariplo)

Guglielmo Ciardi “Pescatore in laguna” olio su tela cm 47,5 x 82,5 (per gentile concessione della Fondazione Cariplo)

Un altro squarcio di vita sui quei tempi ci viene dato da questa terza testimonianza.

«Spesso si andava a pescare in laguna, al “Faneo” o alla “Ponta Longa”. Partivamo da casa a piedi, con tre, quattro fette di polenta fredda in tasca e le braghe corte per cambiarci. L’acqua allora era bella limpida e si andava a “moéche”, “cape”, “busi de gò” (una volta in un solo buco ne ho presi quattordici!). Quando si era fortunati si pescava anche qualche “passarin” e qualche “bisato”. Alla fine tiravamo fuori le fette di polenta fredda e le mangiavamo con le “cape crue”. Sarà stata anche la fame, ma sento ancora in bocca il gusto di quel cibo semplice e meraviglioso.» (Gino Bolzonella)

Un’ultima testimonianza della signora Antonietta Semenzato, nuora della titolare dell’osteria “al frutariolo” in via Gobbi, rammenta che spesso la gente rientrando a casa da un pomeriggio di pesca in barena si fermava all’osteria, che fungeva anche da spaccio del sale e dei tabacchi; qualcuno fra gli uomini, dopo aver bevuto un’ “ombra” di vino, chiedeva di scambiare, per un po’ sale, mezzo toscano o poche sigarette “alfa” o “nazionali”, le “moéche”, le “cape”, o le “schie” che l’intraprendente ostessa offriva fritte agli avventori.

Le storie e le esperienze di questa generazione non sono del tutto scomparse dal nostro entroterra, si sono solo trasformate nelle generazioni successive; i figli e i nipoti infatti hanno appreso le manualità della pesca e le conoscenze sulla laguna dai genitori e dai nonni, ma le utilizzano adesso per il loro tempo libero; a Campalto molte persone dispongono di una imbarcazione tradizionale adatta alla laguna; la maggior parte la usa soprattutto per la  pesca hobbystica che dà la possibilità di catturare con strumenti tradizionali i prodotti dell’ecosistema, e di imbandire una cena frugale, ma salutare, come i loro genitori. Addirittura ci sono ben tre Associazioni culturali e del tempo libero che organizzano e coordinano le attività di queste persone in modo che l’approccio con l’ambiente lagunare sia il più appropriato.

Una di queste tramanda ai giovani le conoscenze e le tecniche anche per autocostruirsi le varie tipologie di reti e altri strumenti per la pesca.

Anche la piccola economia del paese è improntata da questa radicata tradizione: c’è un negozio che commercia in articoli per la pesca amatoriale il quale provvede anche alla fornitura delle esche (corbole = Upogebia litoralis; tremolina = Nereis diversicolor; lombrico = Lumbricus terrestris; ecc.) per gli appassionati che non si premurano di procurarsele da sé. Un altro negozio si sta affermando per fornire alla numerosa flotta di utenti lagunari l’attrezzatura di servizio e di sicurezza prevista, giustamente, dalle disposizioni di legge.

Il porticciolo di Campalto non è mai stato il riferimento per una economia basata sulla   pesca professionale in grado di contare nel bilancio dell’intera comunità, anche se persone che hanno praticato questa professione ci sono state: anzi sopravvive ancora un pescatore ultraottantenne che fa della pesca la sua ragione di vita.

Il legame dei campaltini con la laguna si sta rinsaldando in questi ultimi anni: ne sono riprova l’arrivo di molti canoisti ed escursionisti nautici da varie parti d’Europa e la manifestazione “Campo-alto-mare” organizzata dalle realtà associative locali, una sorta di fiera dell’usato delle attrezzature nautiche tradizionali e lagunari.

Le consuetudini della pesca tradizionale comunque non sono cambiate nelle modalità, negli orari e nei calendari: quelli li detta l’ecosistema, ma per i materiali degli strumenti di  pesca. L’impiego dell’acciao/ferro per alcune parti di essi, l’uso della plastica e della resina di vetro al posto del legno per le imbarcazioni, l’arrivo delle fibre di nylon in sostituzione del cotone per le reti da pesca ha enormemente facilitato le pratiche della pesca, anche se questo ha incentivato l’usa-e-getta di alcuni supporti con detrimento per l’ambiente e la perdita delle conoscenze per il restauro delle attrezzature come il rammendo delle reti da pesca. Ovviamente l’impiego dei piccoli propulsori a motore ha determinato un cambiamento totale dei ritmi con cui la gente programmava la propria uscita in laguna ed inoltre l’uso di nuovi materiali tecnologici (ad es.: compensato lamellare marino) per la costruzione delle imbarcazioni ha completamente rinnovato anche le forme delle stesse ideandone delle nuove come la “patana” o “patanella” derivata dal saltafossi, ma di dimensioni adeguate all’impiego del motore.

Saltafossi, imbarcazione tradizionale lagunare per la pesca in prossimità delle barene.

Saltafossi, imbarcazione tradizionale lagunare per la pesca in prossimità delle barene.

I tipi di pesca tradizionale e relativi strumenti, sommariamente praticate a Campalto in modalità amatoriale e non professionale ancor oggi sono quelle con le reti da posta, con attrezzi a mano e con lenze.

Delle reti si usano ancora: la “tartanella ciara”, una piccola rete (~10 m) da trascinamento (“tratta”) o da posta con cui pescare “schie”, “anguele”, “marsioni”, “cievoli”; e il “tramaglio” che è una rete fissa detta “da imbroco” con le maglie sempre proporzionate alla grandezza del pesce a cui è destinata.

Pesca alla "tratta"con la "tartanella ciara" (Foto ASAP)

 Pesca alla “tratta”con la “tartanella ciara” (Foto ASAP)

I tramagli (o tremagli perché formati da tre pezze di rete sovrapposte) sono conosciuti in laguna come “cerberal” o “sorbere” o in funzione di quello che si pesca “re’ da barboni” o “re’ da sepe”.

L’uso di rete fissa (di lunghezza non superiore ai 20 m per i pescatori amatoriali) abbinata alla “cogularia” (“cogolo” o “bertovelo”) vien denominata “serraglia” in lingua “seragia” o “ciusa” dall’evidente significato; questa pesca è fatta da maggio a settembre per le anguille, cefali e “passarini”.

Cogolaria, cogolo o bertovelo, camera senza uscita abbinata alle reti a "tremagli" o alle "seragie"

Cogolaria, cogolo o bertovelo, camera senza uscita abbinata alle reti a “tremagli” o alle “seragie”

 

 

 

Un altro tipo di rete utilizzata dai pescatori vagativi anche con piccole barche è il “fureghin” o “re’ roversi” o “passerer”, una rete a sacco che una volta calata si adagia con dei piombi sulle velme e mantenuta aperta da dei sugheri galleggianti: vi incappano “sfogi” e soprattutto i “passarini”.

"Fureghin" o "re' roversi" per la pesca delle sogliole o dei "passarini"

“Fureghin” o “re’ roversi” per la pesca delle sogliole o dei “passarini”

Fra gli arnesi di pesca tradizionale manuale ancora utilizzati si ricordano i “parangali” o “triziole” una sorta di lungha lenza armata con numerosi finali in sequenza, ciascuno con un amo recante l’esca prescelta.

Altri tipi di lenze con ami, ciascuna personalizzata sul tipo di pesce ricercato, vengono usate ancora oggi con il nome di “togne” : da cui “togna da orae” con esca: corbole e vermi; “togna da baicoli” con esca: gò e seppie; “togna da cievoli” con esca: vermi; “togna da boseghe” con esca: vermi; “togna da bisàti” con esca: moleche; “togna da paganeli” con esca: schile; “togna da passarini” con esca schile e moleche oppure vermi ma all’epoca della “fraima” e in quaresima; “togna da branzini” con esca piccoli cefali o scardole.

Lenza detta "togna"

Lenza detta “togna”

Altri arnesi tradizionali da pesca consentiti ancora oggi sono:

– il bilancino: piccola rete quadrata (< 2,5 m di lato) che viene calata sul fondo dei canali o dei ghebi e mantenuta aperta da due archi incrociati, ora in ferro, per essere ritirata velocemente per opera di un’asta e una corda.

– il “paravanti” o “rascheta”è una piccola rete montata su un’asta di legno con una estremità divaricata con la quale il pescatore setaccia il fondale spingendola davanti a sé alla ricerca dei “caragoi” o delle “cape tonde”.

"Paravanti" o "raschetta" per la pesca manuale delle vongole o dei "caragoi"

“Paravanti” o “raschetta” per la pesca manuale delle vongole o dei “caragoi”

– lo “schiral” o “negossa” o “aguà” molto usato proprio in prossimità della terraferma: una rete a sacco montata su un’asta abbastanza lunga e leggera con cui setacciare le acque dalla riva dei canali o dai bordi dei ghebi per la cattura di gamberetti o affossare leggermente nel fondo alla ricerca delle “cape” (cfr. il quadro di Ciardi).

– Le fiocine: in laguna di fronte alle barene si usano ancora la “fossina da bisati” conosciuta in due versioni, quella veneziana con le tredici punte disposte a ventaglio mentre quella chioggiotta con le punte (“barbole”) perpendicolari. Molto più usata è la “fossina da passarini” a sette punte disposte a ventaglio senza uncino per non rovinare il delicato corpo del pesce. Si usa anche il “fossenin” o “fossenigolo” una piccola fiocina a tre punte non uncinate per la pesca del gò o per la pesca a “fagia” o “fagiaroto” – vocabolo derivato dal latino fax = fiamma – una pesca notturna dalla barca munita di una fonte luminosa posta a prua, che abbaglia e sorprende i pesci per qualche attimo che consente di infilzarli.

– Le “nasse” o “chebe” sono delle ceste, una volta di vimini o canne oggi in rete, in genere di forma cilindrica o a tronco di cono, dotate di una o più aperture a trappola per la pesca  dei gòbidi e dei gamberetti. Adagiate sul fondale ed ancorate ad una canna che viene infissa nella velma, vengono riempite di polpa di granchi schiacciati in un mortaio per attirarvi i pesci.

Molte altre sono però le forme ed gli strumenti della pesca lagunare professionale; per conoscerle si rimanda alla bella pubblicazione della Provincia di Venezia – da cui sono tratte alcune immagini di questa pagina – che meriterebbe una ristampa.

Le Associazioni culturali e di pesca sportiva di Campalto che hanno fornito le informazioni qui riportate, nel costante impegno di mantenere vivo l’utilizzo di antichi attrezzi e di tradizionali modalità di pesca della laguna di Venezia, sanno anche che per la pesca vagantiva amatoriale occorre essere titolari di licenza di pesca o documento equipollente ai sensi della normativa regionale .

Le tipologie delle imbarcazioni presenti a Campalto si rifanno ai tipi di barche tradizionali ma di piccola stazza poiché non è presente una marineria lagunare professionale come quella dei pescatori di Burano, Chioggia o San Pietro in Volta. Perciò si rinvengono per la maggior parte “sandoli alla valesana”, “saltafossi”, “patane” e “patanelle”, tutte barche a basso pescaggio adatte ad transitare nei meandri delle barene lagunari.

Sandalo alla "valesana"

Sandalo alla “valesana”

E’ bene sottolineare un aspetto importante che accomuna il passato con il presente: la frequentazione della laguna denota il bisogno di utilizzare nei modi dovuti un bene comune a testimonianza che è una risorsa da condividere e tutelare, un luogo che “assicura” sostentamento e diletto a patto che si apprendano e trasmettano le conoscenze per un corretto impiego delle risorse.

Un luogo che assicura la socialità e la responsabilità di chi lo frequenta.

Un luogo per questo caro alla comunità.

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* tratto dalla pubblicazione “LA LAGUNA DEL PASSO CAMPALTO. STORIA, AMBIENTE, DEGRADO E PROSPETTIVE DI RISCATTO. PER UN’AREA NATURALE PROTETTA NELLE BARENE DI CAMPALTO“, Comune di Venezia , Gruppo per Salvaguardia dell’ambiente “La Salsola” Campalto, WWF Venezia. Venezia agosto 2010. A cura di Giuseppe (Pino) Sartori . Arcari Industria Grafica Mogliano Veneto.

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Tra Cordovado e Venchieredo, a un miglio dei due paesi, v’è una grande e limpida fontana che ha anche voce di contenere nella sua acqua molte qualità refrigeranti e salutari. Ma la ninfa della fontana non credette fidarsi unicamente alle virtù dell’acqua per adescare i devoti e si è recinta d’un così bell’orizzonte di prati di boschi e di cielo, e d’una ombra così ospitale di ontani e di saliceti che è in verità un recesso degno del pennello di Virgilio questo ove le piacque di porre sua stanza. Sentieruoli nascosti e serpeggianti, sussurrio di rigagnoli, chine dolci e muscose, nulla le manca tutto all’intorno. È proprio lo specchio d’una maga, quell’acqua tersa cilestrina che zampillando insensibilmente da un fondo di minuta ghiaiuolina s’è alzata a raddoppiar nel suo grembo l’immagine d’una scena così pittoresca e pastorale. Son luoghi che fanno pensare agli abitatori dell’Eden prima del peccato; ed anche ci fanno pensare senza ribrezzo al peccato ora che non siamo più abitatori dell’Eden.

— Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano

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